mercoledì 21 dicembre 2011

Burocrati siamo noi


Da amministrazione a burocrazia

Jared Diamond ha spiegato benissimo in Armi, acciaio e malattie l'origine dell'amministrazione. Sintetizzo, con qualche inevitabile banalizzazione: l'amministrazione nasce quando le società antiche si sviluppano abbastanza da avere bisogno di un apparato che fornisca i servizi necessari a un ulteriore sviluppo della società. Contabili, legali, sanitari ecc. non contribuiscono direttamente al prodotto, ma servono a produrlo e a produrne di più.

In questa logica, che è logica, chi produce è disposto a sostenere il costo, direttamente improduttivo, dell'amministrazione perché comprende che è un investimento, perché conviene.

Il termine burocrazia non ha niente a che vedere con questo rapporto.
Il termine burocrazia nasce nella seconda metà del Settecento e ha nel suo stesso etimo le sue ragioni: potere dell'amministrazione, influenza politica degli amministrativi. La burocrazia indica lo stadio che l'amministrazione ha raggiunto quando, invece di essere al servizio della produzione, è ormai al servizio di se stessa, cioè, in altri termini, soggioga la produzione, la ricatta.

Espressione diretta del potere del sovrano, la burocrazia si mangia più prima che poi pure il sovrano, che non riesce a governarne la tecnicità, di cui ha bisogno per gestire la complessità crescente della vita sociale.

Dominando a monte (il sovrano) e a valle (la produzione), la burocrazia diviene il motore immobile dello stato moderno. Astratta, tecnica, impersonale, impolitica, amorale, disetica: la burocrazia esiste e si riproduce ermafroditicamente, formatta i suoi addetti e impone le sue leggi ai suoi padroni e ai suoi finanziatori. L'apparato strumentale è divenuto ragion d'essere dello stato produttivo: il servo che fa la spesa minaccia il padrone di farlo digiunare.

Ma c'è, forse, di peggio: il meccanismo burocratico funziona indipendentemente da chi lo aziona, genera automaticamente la fase successiva, si giustifica in se stesso salvando da responsabilità individuali i suoi addetti. A una catena di montaggio di questo tipo si devono alcuni aspetti dell'Olocausto, come ha mostrato Hannah Arendt.

Il trionfo della burocrazia coincide, però, con la società dei consumi. L'aumento dei volumi del commercio esige un aumento della contabilità, richiede in fretta una generazione di abilitati alla scrittura e al conteggio, che prima operava manualmente nella produzione. E così, da un lato l'amministrazione pubblica si è estesa, dall'altro ha richiesto anche al settore privato di dedicare energie e persone alla gestione delle sue esigenze, che non sempre coincidono con le esigenze produttive (per le quali le imprese hanno una loro propria amministrazione, in gran parte necessaria).

La mentalità

Lo sviluppo culturale ed economico dell'Italia degli anni Cinquanta e Sessanta spiega in parte e in parte si spiega  con la necessità di impiegare nell'amministrazione pubblica e privata, un numero di addetti non disponibile sul mercato.

Per reclutarli nel pubblico, ecco i concorsi, cioè meccanismi concepiti per garantire la trasparenza. Niente di strano: è coerente con l'impersonalità burocratica e con la necessità di dimostrare di essere un servizio. Per trattenerli e renderli fedeli, ecco la certezza eterna del posto di lavoro, che è servita anche come precedente per lo sviluppo, negli ultimi quaranta anni, della legislazione del lavoro anche nel settore privato.

È certamente grande responsabilità dello sviluppo burocratico la diffusione della mentalità del posto fisso. Una delle tantissime ragioni del ritardo della nostra cultura d'impresa sta lì, in questa mentalità. Una mentalità fondata sulla paura, sulla diffidenza, su una lunga storia di povertà e di mancanza di libertà.

Il gravissimo problema irrisolto, anzi neppure tematizzato, dell'Italia degli ultimi quaranta anni è tutto qui: l'Italia ha perseguito per decenni l'educazione di generazioni intere all'aspirazione alla sicurezza garantita dall'ingresso nell'amministrazione, pubblica o privata non fa differenza.

In questa forsennata opera di travisamento hanno contribuito in modo decisivo, e sguazzando nel guano, la cultura cattolica e la cultura marxista. La prima, satanizzando il denaro; la seconda, di sponda e a rimorchio, satanizzando chi produce denaro. La prima, decisamente più avveduta, prevede collaudati meccanismi di deroga (tecnicamente: senso di colpa e relativo perdono); la seconda, decisamente meno esperta, ha escogitato meccanismi di interdizione e di rivendicazione (sarà un caso che il marxismo è stato teorizzato da un ebreo e realizzato in un paese ortodosso?).

Il costo della politica

Oggi l'amministrazione, pubblica e privata, è talmente ampia da soggiogare i suoi protettori, che infatti non sanno più come fare a disfarsene, anzi - che dico? - a limitarne la crescita esponenziale.

Questo è il costo della politica, questo è il costo che non ci possiamo più permettere. Non è certo il denaro percepito dai politici, anche se, guarda caso, è proprio quello, il satanico denaro, a essere messo sotto accusa (per carità, diminuiamo pure gli stipendi dei politici ed eliminiamo pure i loro vitalizi: non è certo questo che mi interessa).

Il costo che non ci possiamo più permettere è il costo del patto tra i decisori e i milioni di cittadini che devono o credono di dovere la loro sopravvivenza a quel patto. Chi ricatta chi?

Temo che la resa dei conti stia per arrivare. Lo temo non tanto per i conti che dovremo rendere quanto per la capacità di riprenderci. Questa capacità, infatti, non vedo su che cosa si debba basare se non sulla rinuncia alla protezione, al mito della protezione, al mito del sussidio, al mito del finanziamento, al mito dell'intervento pubblico che deve garantire questo e quello e persino quell'altro.

Una partita da vincere

Nel frattempo, stiamo giocando la partita. Giocata così, cioè nel tentativo di salvare la capra e i cavoli, è persa in partenza. Ma non la perderemo. La giocheremo diversamente e la vinceremo. Diversamente significa, tra le tante cose, che dobbiamo svezzarci dall'allattamento burocratico, dall'aspirazione a essere accolti nel gran ventre protettivo di qualcuno al quale attribuiamo il potere magico di non crollare, e di sorreggerci. Il nostro debito è lì a ricordarci che ci siamo coccolati un po' troppo.