lunedì 24 settembre 2012

Che cosa significano sinistra, centro e destra?

Ho amici che votano sinistra, centro e destra, con tutte le sfumature intermedie. Nessuno di loro, però, sa darmi una definizione per me convincente di che cosa vogliano dire sinistra, centro e destra.
Per conto mio, penso che, nel processo di tempo, sinistra, centro e destra abbiano perduto in gran parte i loro significati storici.

I banchi del Parlamento
Non so come avvenga che un partito ottenga di occupare i banchi che predilige. Immagino che debba richiederlo, e immagino che nessun partito di sinistra abbia mai chiesto di occupare i banchi di destra e viceversa. E quelli di centro? Non credo che ci siano state molte questioni, al massimo qualcuno che avrà detto al vicino di... farsi più in là.

Che cosa accadrà nel nuovo Parlamento? Penso che, semplificando, il PD cerchi di ottenere i banchi di sinistra, il PDL quelli alla destra dell'UDC, che chiederà di avere quelli centrali. E se nuove forze politiche dovessero entrare in Parlamento, che cosa sceglieranno?

Ma, a parte la posizione sui banchi, in base a che cosa un elettore e un partito si sentono o sono convinti di essere di sinistra, centro o destra? A me pare che oggi i significati storici non funzionino tanto bene.


Il significato ideologico
I significati storici hanno a che fare con soprattutto con l'ideologia di riferimento (marxista, cattolica, liberale ecc.), ma a ben guardare le epoche non sono state tutte uguali, sicché, tanto per dire, i repubblicani dell'Ottocento erano una cosa, i loro eredi azionisti durante il fascismo un'altra e i repubblicani nella Repubblica un'altra cosa ancora, anche perché la monarchia non c'era più. Per fare un altro esempio, dal socialismo ottocentesco si sono via via distaccati i comunisti e i socialisti democratici, i quali in epoca repubblicana sono stati più spesso avversari che alleati. Anche i cattolici hanno avuto il loro bel daffare: prima per farsi dare il permesso dalla Chiesa, successivamente per capire se appoggiare o no il fascismo (e bisognerà pur ricordare che, con i Patti Lateranensi, il partito non fu monolitico contro Mussolini, anzi), poi unificandosi nella DC, che era detta la Balena bianca con riferimento alle sue innumerevoli correnti, infine, e siamo ad oggi, nella diaspora tra la destra berlusconiana, il centro di Casini e la sinistra del PD. Quanto ai liberali, il percorso non è più lineare, perché anche loro hanno avuto una versione di destra, il partito Liberale, liberista, di Einaudi, Malagodi e infine Zanone, e una versione di sinistra, il partito Radicale, libertario.


I significati storici, oltre a non essere lineari, non sono nemmeno coerenti: la fede cattolica non ha mai impedito a nessuno di essere liberale (Einaudi) o persino marxista, alla faccia della scomunica. I fascisti erano tutti cattolici, almeno a parole. Molti importanti rappresentanti dei partiti che oggi dichiarano di essere cattolici danno scandalo (almeno a coloro che sono cattolici), essendo divorziati e risposati anche più di una volta. Il cattolicesimo, essendo una questione personale ma largamente maggioritaria da noi, non è, in definitiva, discriminante per l'azione politica.


Il significato classista
La visione ideologica della vita e della politica si è tirata dietro a lungo una visione classista della società, visione che ancora ispira i partiti di estrema sinistra: lavoratori intesi come operai/proletari, datori di lavoro e così via. Facile osservare come, nel processo di tempo, queste distinzioni tengano meno. Fin dagli anni 50, il PCI è divenuto se non la casa almeno il rifugio di molti artisti, intellettuali, i quali, non so se loro malgrado, sono divenuti i testimonial presso la base operaia degli ideali di giustizia sociale propugnati da quel partito. D'altra parte, è vero anche che non solo i partiti marxisti hanno avuto una larga base popolare. Non si può dire che la DC non l'avesse, e nemmeno il MSI, e nemmeno, più recentemente, la Lega.

Lo stesso vale per tutte le altre classi sociali. Non credo che esista alcun partito che possa scommettere che, poniamo, un operaio non lo voti o, al contrario, che un imprenditore non lo voti. Ciò vale in particolare per i partiti maggiori, i cui elettori appartengono direi proprio a qualsiasi classe sociale.

Infatti, oggi, i problemi principali che attanagliano le classi sono altri, e sono altre le contrapposizioni che i cittadini devono affrontare. Per esempio, tra i sindacati datoriali e i sindacati dei lavoratori vi sono, su molte questioni, meno disaccordi che tra sindacati datoriali e governo, e tra sindacati dei lavoratori e governo.


Il significato attitudinale
Sempre collegata alla matrice ideologica, vi è un'altra schematizzazione: progressisti, moderati, conservatori. Questa, a mio modo di vedere, è ancora più debole, perché che cosa significhi essere progressista dipende essenzialmente da che cosa si intende per progresso. Sicché, quel che per me è progresso, per un altro potrebbe essere conservazione. Era progressismo l'interventismo nel 1914? E oggi, che cosa intendiamo per progresso?

In altri termini, non è che a priori fare una cosa nuova significhi progredire o conservarne una vecchia significhi opporsi al progresso. Mi pare evidente che queste etichette diano un po' troppo per scontata l'idea di progresso che chi se le appiccica ha.


In sintesi, la faziosità
A me pare che i significati storici non solo abbiano perduto il loro significato ma nemmeno l'abbiano mai avuto in modo rigoroso. La scelta politica, in Italia, poggia su basi ideologiche poco coerenti, per non dire molto confuse.

Per questa ragione da noi, più che di contrapposizioni ideologiche, si dovrebbe parlare di faziosità, che è ciò che diventa l'ideologia praticata come copertura. In questo meccanismo, foraggiato dalla proverbiale ignoranza italiota e dalla vocazione alla delega, per una cinquantina di anni ci siamo goduti la partigianeria comunista opposta a quella democristiana. Gli altri, un po' deqquà e un po' dellà, secondo l'aria che tirava.

La faziosità si è addirittura inasprita con la Prima Repubblica Bis (troppo ottimisticamente detta Seconda Repubblica): "Chi non mi vota è un comunista", ammoniva Berlusconi. E gli altri, anziché farsi un bella risata, giù a spergiurare di essere divenuti liberali, come lui, prima di lui, meglio di lui. Da parte loro, tutti insieme spassionatamente, uniti anzi unificati dall'antiberlusconismo. Uno spettacolo che mi pareva triste, ma oggi mi pare grottesco..

Infatti, diamo un occhio ai risultati che ha ottenuto la politica concepita come schieramento motivato dalle contrapposizioni ideologiche. Perché, almeno negli ultimi venti anni:
  • che i progressisti abbiano fatto progredire il nostro paese? e se sì, verso dove?
  • che la sinistra abbia realizzato le magnifiche sorti e progressive dei lavoratori?
  • che i moderati abbiano attrezzato riforme eque?
  • che i cattolici abbiano impresso alla politica e alla società il soffio caldo della loro vocazione?
  • che i conservatori abbiano difeso e magari anche valorizzato la Patria, e magari anche all'estero?


Tutti liberali, infatti
Dagli anni Novanta, post comunisti, post fascisti, post democristiani sono divenuti tutti improvvisamente liberali, alla velocità con la quale è caduto il Muro di Berlino. Però, tutti questi liberali, e liberali "da sempre" per giunta, hanno attuato una politica che di liberale, a parte il nome, non ha pressoché niente: la crescita si è fermata, l'invadenza dello Stato nell'economia ha assunto le caratteristiche della concorrenza sleale, i provvedimenti che la pubblica amministrazione ha preso hanno finito per ostacolare per non dire boicottare l'attività d'impresa e le scelte private dei cittadini.

Che cosa ci sia di liberale, non saprei.


Lo statalismo trasversale

I partiti, tutti, ben lungi dall'aver praticato quella politica liberale di cui si sono dichiarati portatori, hanno realizzato l'esatto contrario: in sintesi, lo statalismo (per dir meglio, l'hanno consolidato, cementificato, dal momento che lo statalismo risale parecchio addietro e, temo, ancne più profondamente rispetto alla facciata partitocratica).


Ora e ancora abbiamo uno Stato etico, che giudica le scelte personali dei cittadini. Perché mai chi vuole divorziare deve attendere tre anni da separato (erano cinque fino a qualche mese fa)? Forse per dargli tempo di riflettere meglio? Ma allora, non sarebbe meglio obbligare i promessi sposi a tre anni di fidanzamento, così ci pensano meglio prima?

Inaspettatamente (forse) per i classisti, dirò che classista è lo Stato, nel quale una oligarchia rappresentata dai partiti e dai loro gerarchi (compresi quelli dei partiti classisti) si contrappone ai cittadini e alle imprese. C'è chi la chiama casta, infatti, dati i privilegi che ha, cioè che si è via via presi, a man salva.

Abbiamo ancora, infine, uno Stato imprenditore, che concorre con le imprese, e in modo spesso sleale, come nel caso della si fa per dire azienda RAI, che esige il tributo del canone, concorre con le reti private nella raccolta della pubblicità e, a differenza delle aziende private, socializza le perdite, e non gli utili (nemmeno quando ci sono).

Uno Stato, aggiungo, pessimo imprenditore, dal momento che lo Stato non sa fare l'imprenditore e, per conto mio, nemmeno deve imparare a farlo. Tuttavia lo fa e malissimo, perché lo Stato non mette a capo delle sue aziende un imprenditore, ma un gerarca (che accetta compensi più bassi ma non bassissimi), o uno che probabilmente lo diventerà, che potrà persino imparare a ricattare la politica che l'ha messo lì, come fece per primo, in epoca repubblicana, Enrico Mattei (che, oltre ad essere stato un partigiano, era un bravissimo imprenditore, tanto che la sua azienda di coloranti chimici esiste ancora).

Lo Stato non è, non sa e non deve essere imprenditore: basterebbe considerare che il bilancio è tremendo, fatto di tasse in aumento (e ormai oltre la soglia di sostenibilità), un debito pubblico eccessivo (oltre la soglia di sostenibilità), e di spese spensierate per mantenere i gerarchi e la burocrazia, dalla quale la politica non riesce più a emanciparsi (ne ho già scritto , e ).

Questo è il risultato degli almeno ultmi venti anni di politica. Guardiamo i risultati, che sono ciò che conta (o studi o vai a lavorare; o fatturi o chiudi). E non diciamo che la colpa è dei partiti avversari, perché non trovo disdicevole che nella vita democratica pesino la voce e il voto di chi non la pensa come me.


Dai partiti attuali non vedo come non ci si possa attendere altro che continuità, anche perché le persone che li guidano hanno dimostrato ad abundantiam di essere piuttosto incompetenti, quanto almeno a capacità di portare a casa un risultato. Vedo che nuovi partiti nascono o vorrebbero nascere: il Movimento 5 Stelle, Italia Futura, Fermare il declino, che è il movimento che in questo momento mi piace di più, anche perché si pone pochi ma in compenso chiari obiettivi concreti e necessari. Ci sono altri movimenti, soprattutto nell'ex centro-destra. Vedremo.


La crisi come opportunità

Se arriveranno in Parlamento, i nuovi partiti si siederanno a destra, a sinistra, o in centro? Francamente, non me ne importa nulla. E votarli, vorrà dire essere di sinistra, di centro o di destra? Nuovamente, non me ne importa nulla.

Mi importa molto più discutere per fissare alcuni, pochi, principi dell'azione politica e orientare a quelli i provvedimenti da prendere nei vari casi della complessità. Ognuno indichi i suoi, possibilmente con parole sue, e possibilmente con formule non logore.

I principi dovrebbero essere diversi da quelli che la politica ha seguito, sempre ammesso che ne abbia seguiti o non, piuttosto, abbia contrabbandato i principi e il bene comune con gli interessi suoi e, ma molto meno, dei suoi elettori.

A me pare che sia importante ridefinire il ruolo dello Stato, e le sue prerogative. I risultati delle ricette stataliste li vediamo ormai bene. Quel che non abbiamo mai sperimentato è uno Stato fondato su principi a-ideologici, cioè uno Stato di tutti, inclusivo di tutti. Dunque uno Stato che si occupa esclusivamente di ciò che tutti i cittadini ammettono che lo Stato si debba occupare. Per conto mio: difesa/ordine pubblico, giustizia, sanità e istruzione (queste ultime due, non necessariamente in esclusiva, ma senza oneri). Per il resto, uno Stato regolatore e non uno Stato giocatore. Uno Stato bandiera del genio italiano, non uno Stato geniale. Uno Stato leggero e garante del bene comune.

Il contrappeso necessario di uno Stato leggero è la responsabilità individuale, il senso civile. Non siamo fortissimi in queste materie. Ma sta a noi. D'altra parte, il rinnovamento della politica presuppone o no un certo rinnovamento del nostro modo di pensarla?

Costa? Costa. Fatica? Umiltà? Studio?

E allora?

A proposito, secondo me questo sarebbe un progetto progressista.

3 commenti:

  1. Caro Giovanni, la tua analisi è molto interessante e pone delle questioni complesse, per le quali credo che non esistano soluzioni facili. Per quanto mi riguarda, scrissi nel 2009 un articolo in cui provavo a definire quelle che mi sembravano le differenze essenziali tra una visione di destra e una di sinistra della società (puoi leggerlo qui, se vuoi: http://quasiumano.blogspot.it/2009/05/essere-di-sinistra-e-non-saperlo.html).

    Non metto in dubbio che i partiti attuali, tutti, hanno fallito gravemente negli ultimi venti anni. In questo fallimento, vedo principalmente due cause: la perdita di ogni residuo di etica pubblica (cioè il trionfo dell'interesse personale più miope e marchiano) e la concomitante mancanza di una visione chiara di cosa è il presente, con tutte le sue complessità, e di come dovrebbe essere il futuro. I politici che stanno oggi in parlamento sono quasi tutti ignorantissimi e assolutamente incompetenti, o almeno mi sembrano tali, quanto a capacità di leggere la realtà. Forse sono troppo chiusi nei privilegi della loro torre d'avorio (nel Lazio si sono concessi 32 milioni di fondi pubblici da usare in gozzoviglie, mentre chiudevano ospedali e alzavano i ticket). Ma temo che saranno risvegliati duramente a breve.

    Le cose devono cambiare, hai ragione, ma come cambiarle è tutt'altro discorso. Non credo che sia possibile, e forse neppure auspicabile, uno Stato a-ideologico. Lo Stato deve normare la vita dei cittadini e questo significa dover prendere posizioni che sono inevitabilmente ideologiche ed etiche. Lo Stato deve decidere su questioni come il fine vita, l'uso degli embrioni, le diagnosi pre-impianto, i diritti delle coppie di fatto, i matrimoni e le adozioni dei gay. Queste e mille altre decisioni implicano che vi sia alla base una visione della società, della convivenza umana, della libertà, dei diritti, dei doveri e, in generale, dell'etica. Il codice civile e quello penale, la stessa costituzione non sono a-ideologici né indifferenti all'etica, ma sono espressioni di quello che una certa elite borghese e cattolica di un'Italia che non c'è più pensava fosse il miglior compromesso possibile tra le diverse esigenze in conflitto.

    Come dice Sartori, la democrazia è imperfetta, ma per ora nessuno è riuscito a trovare uno strumento di governo migliore. Personalmente temo però gli eccessi di democrazia. Quando Grillo dice che farebbe decidere agli italiani con un referendum se rimanere nell'euro o tornare alla lira, sembra che esprima un principio altamente democratico e condivisibile. Ma il bene comune, o il meglio in un certo momento, non sempre, anzi forse quasi mai, coincidono con il voto espresso da una maggioranza, soprattutto se questa maggioranza non è sufficientemente informata. Quali competenze specifiche in economia hanno un panettiere, un operatore di call center, un calciatore, uno studente di liceo (giusto per fare qualche esempio, ma se ne potrebbero fare altri) per capire le infinite sottigliezze e conseguenze di una scelta come il ritorno alla lira?

    Temo che oggi la realtà sia troppo complessa perché determinate decisioni possano essere prese da incompetenti. Ma come selezionare chi sappia prendere tali decisioni nel rispetto del bene comune è materia da far venire i capelli bianchi. Del resto capire quale sia oggi il bene comune è tutt'altro che semplice.

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    1. Caro Michele, ricette non ne ho, solo qualche opinione. Una certezza: che da questa crisi può uscire un'Italia migliore. A mio modo di vedere, servono teste nuove, che abbiano la capacità di leggere la realtà con altri strumenti che non siano quelli delle logiche da campagna elettorale o da gestione della burocrazia. Se non si parte da qui, il pallino resterà nelle mani dei soliti, con i soliti risultati. Ma se si parte da qui, ogni dibattito può contribuire a delineare nuove ricette. Questo blog è nato apposta. Grazie del tuo intervento

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  2. Per me hai chiesto agli amici sbagliati ...

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