mercoledì 13 marzo 2013

Manzoni e il vero falsificato: introduzione


Alla fine, conta il testo.
Banale, forse, ma non ovvio, soprattutto per i capolavori, ricoperti via via da strati sempre più spessi di interpretazioni che, quando divengono argomento di se stesse, rischiano davvero di sostituirsi al testo e di trasmettere l'idea che il testo possa essere dato per scontato.
Manzoni, il suo romanzo e i saggi di poetica corrono questo rischio. Lo mostrano, mi pare chiaramente, i risultati di questa prima indagine sulle fonti canoniche del Concilio di Trento e della Chiesa ambrosiana di Carlo e di Federico Borromeo. Le ho interrogate soprattutto a proposito della disciplina del matrimonio, dopo essermi accorto che nel romanzo, a tale proposito, qualche conto non tornava.
Me ne ero accorto mentre lavoravo a una nuova edizione scolastica (che poi non è stata portata a termine), che avevo progettato appunto con lo scopo di valorizzare il testo e la sua bellezza, confidando o piuttosto scommettendo che il romanzo potesse ancora piacere agli studenti. Valorizzare il testo mi parve che significasse anche rinunciare a spiegarlo con ciò che era ovvio o acquisito per la critica o per un docente e provare a spiegarlo rispondendo alle curiosità di uno studente che lo leggesse per la prima volta. Mi sono dunque messo dalla parte dello studente, e mi sono sforzato di immaginare quali domande potesse fare per intendere quali punti del romanzo.

Per esempio, mi interrogavo sul perché Manzoni accettasse la spiegazione di Agnese a proposito della liceità del tentativo di matrimonio in casa di don Abbondio. Mi pareva strano che Manzoni si accontentasse di quelle parole di Agnese «La legge l'hanno fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto». Poverello Manzoni? Poverelli i lettori?

E poi, qual era quella legge? Manzoni non dà risposte nel romanzo (né altrove), e fa passare l'idea che le regole siano tutte rispettate, e dunque ci induce a pensarla come Agnese («Agnese aveva ragione»). Però mi pareva molto strano che Federico Borromeo non obietti nulla quando don Abbondio gli dice, a proposito del tentato matrimonio, che quello è «un matrimonio contro le regole».

Manzoni mi appariva contraddittorio e reticente, ma nei commenti scolastici, che avevo sottomano, e nella critica, che ho interrogato poi, non ho trovato risposte, salvo cenni imprecisi e superficiali in un paio di manciate di saggetti occasionali, utili soprattutto a suggerire di proseguire l'indagine. A quel punto, non mi restavano che le fonti primarie, e la sorpresa che nessuno le avesse investigate a fondo prima di me.

La fonte discriminante sono i decreti del Concilio di Trento. Manzoni li conosceva certamente fin dal tempo delle Osservazioni sulla morale cattolica (1819), ma nella edizione definitiva, la Quarantana (d'ora in poi Q), e anche nella Ventisettana (d'ora in poi V) vi si riferisce con una libertà eccessiva, che insospettisce.

Nella prima parte di questo volume, Indagine sulla Quarantana, smontando l'intreccio e ricostruendo la fabula del matrimonio non celebrato, individuo una serie di contraddizioni, la principale delle quali è che il difetto degli impedimenti, argomentato da don Abbondio, è una falsità che nasconde il difetto delle pubblicazioni, che è il vero errore procedurale e sostanziale da lui compiuto. Ma ai dubbi e alle domande che il lettore si pone su questa e su altre questioni, Q non offre soluzioni né risposte: è un sistema chiuso, che sembra fatto apposta per incuriosire e anche però per mantenere il mistero.
Nemmeno V offre la chiave. Bisogna risalire al Fermo e Lucia (d'ora in poi FL), che invece segue molto più da vicino la dottrina matrimoniale del Concilio. Qualcosa accade dunque tra il termine della prima redazione del romanzo (settembre 1823 e anzi anche della prima redazione della Colonna infame, dicembre 1923), e l'inizio della sua revisione (marzo 1824).

Accade che Manzoni si imbatte in altre fonti canoniche, gli Acta della Chiesa ambrosiana di Carlo e di Federico Borromeo, che presento nella seconda parte del volume La poetica e la crisi del 1823-1824, dopo aver ripercorso le tappe più o meno note dello sviluppo della poetica manzoniana. In questi documenti, che erano legge nella Diocesi di Milano (alla quale il Concilio di Trento aveva concesso di mantenere le sue prerogative), Manzoni scopre che alcuni decisivi aspetti strutturali del suo romanzo sono inverosimili e antistorici. La più grave contraddizione riguarda il matrimonio tentato in casa di don Abbondio:
  • un decreto di Federico Borromeo del 1609 comminava la scomunica a chi lo avesse praticato;
  • se il tentativo fosse andato a buon fine, avrebbe generato un matrimonio invalido (per difetto di alcune formalità sostanziali stabilite dal Concilio di Trento) e illecito (in quanto clandestino).
Con i protagonisti scomunicati, buona notte all'ortodossia della morale positiva da loro rappresentata e dunque buona notte al rispetto della poetica del vero storico e del vero morale, enunciata e annunciata nella Lettre a M. C*** (scritta nel 1820 e pubblicata nel 1823), che Manzoni riteneva invece di aver realizzato con FL.

Manzoni, a questo punto, ha tre possibilità. La prima, sanare il romanzo, non gli pare possibile. Come è ovvio, non pratica la seconda: bruciare il romanzo. Percorre la terza. Manzoni accetta le contraddizioni, per salvare il romanzo, ma non intende ammetterle, e dunque occulta e falsifica la dimensione storica del matrimonio, accreditando il falso per il vero. Il che significa anche ingannare il lettore. Manzoni fatica parecchio, ma riesce infine a presentare come storicamente valido un romanzo in cui in realtà vale tutto, anche ciò che Manzoni aveva escluso che potesse valere: che l'invenzione non dovesse «falsificare la storia».

Nella terza parte del volume, Un romanzo in cui vale tutto, descrivo nel modo più chiaro possibile la revisione, talvolta complicatissima, dei passaggi chiave del romanzo: parto dal primo getto della cosiddetta Prima minuta di FL e, passando per le correzioni al primo getto, per la revisione della Seconda minuta, per la Copia per la censura del primo tomo della Ventisettana e per la Ventisettana, risalgo alla Quarantana.

La scelta di salvare il romanzo storico che falsifica la storia mi pare dovuta all'impulso dell'artista che si impone contro le ambizioni del pensatore e le pretese del credente, proprio nel momento in cui stavano per conquistare un equilibrio a lungo inseguito. Ma questo equilibrio, ormai a portata di mano, svanisce irrimediabilmente come un sogno interrotto, e i concetti cardinali di vero storico e vero morale, di storia e invenzione, di poesia e «letteratura in genere» divengono incommensurabili.
Come appare da molte lettere e da alcune testimonianze, ne risente immediatamente la salute psico-fisica, precaria già da tempo, e tale destinata a rimanere.

Tra il 1824 e il 1840, Manzoni è ufficialmente impegnato con il romanzo: rivede FL, pubblica V, rivede V, pubblica Q. Tutti gli aspetti della revisione sono condizionati dalla svolta ideologica del 1824, e anzi mi pare di poter affermare che siano ad essa subordinati.

E, con il romanzo, la Colonna infame. Anch'essa, scritta in prima redazione fra il settembre e il dicembre del 1823, viene sottoposta a profonda revisione, per renderla compatibile con il romanzo. Nella Colonna pubblicata, infatti, Manzoni rinuncia a tutte le enunciazioni compromettenti formulate nella prima redazione del 1823, che ancora nel luglio del 1824 aveva in animo di pubblicare insieme a V, ma che poi tenne nel cassetto, privando i lettori della possibilità di cogliere le differenze.
Ma ora appare chiaro che è proprio la Colonna l'anello di congiunzione con le due opere di poetica che Manzoni pubblica dopo il romanzo: il Discorso sul romanzo storico e la Lettera sul Romanticismo al Marchese D'Azeglio. Nella quarta parte del volume, Una poetica disperata, mi occupo appunto dello sviluppo della poetica manzoniana attraverso l'esame di queste opere, a partire dalla prima. La Colonna, infatti, pur non potendo spiegare l'evoluzione della poetica manzoniana (che non è spiegabile), glissa sul concetto di verità storica, inducendoci a dare per scontata la conformità sua e del romanzo con la poetica della Lettre, ma in realtà preparando il terreno per il Discorso sul romanzo storico, e per alcune sue formule famose finora apparse contraddittorie come «Un gran poeta e un gran storico possono trovarsi, senza far confusione, nell'uomo medesimo, ma non nel medesimo componimento». Appunto: il gran poeta nel romanzo, il gran storico nella Colonna.
Il Discorso sul romanzo storico ha affaticato molto la critica che, anche quando ha ravvisato coerenza con il romanzo, non ha mai attribuito al Discorso un grande valore. Ma, come alcuni critici hanno già notato, il Discorso, nel quale Manzoni esprime il suo clamoroso rifiuto del genere del suo stesso romanzo, è privo di senso, inficiato da un'ambiguità che non risiede tanto o solo nell'architettura del saggio, quanto a monte del saggio, tale da essere una precondizione che sfalsa il Discorso a valle. Sicché accettare il ragionamento di Manzoni conduce fatalmente fuori strada. Il senso di quel Discorso va, a mio modo di vedere, rintracciato non in quello che Manzoni dice ma in quello a cui Manzoni allude non potendolo dire, cioè al fallimento del suo romanzo storico rispetto al divieto di falsificare la storia. Ma che Manzoni alluda a quel fallimento, il lettore non può saperlo, e, fidando comunque in lui, cade nella sua rete logica.

Ma la questione più rilevante a proposito del Discorso non è tanto quella di individuarne il senso, che non c'è, quanto quella di capire perché Manzoni l'abbia pubblicato. Poteva lasciarlo nel cassetto, bruciarlo, insomma tacere: c'era la Lettre, c'era il romanzo, c'era la Colonna. C'era però anche la fama di grande romanziere storico veritiero.

Io ipotizzo che Manzoni abbia pubblicato il Discorso per liberarsi dal senso di colpa causato dall’avere rinnegato la sua poetica e avere ingannato il lettore. Tuttavia, Manzoni, che non può dire esplicitamente le cose come stanno, ostenta di ambire a una nuova poetica o a un nuovo assetto della sua vecchia poetica, a un sistema teorico coerente in se stesso e compatibile con il romanzo. In questa prospettiva il Discorso conterrebbe la poetica del romanzo, mentre la Lettre resterebbe a testimoniare la poetica valida per la sola tragedia.

Manzoni doveva però sistemare una questione parecchio imbarazzante. Nel settembre del 1823 aveva inviato al Marchese D'Azeglio una Lettera sul Romanticismo il cui contenuto è sintetizzato nella formula «che la poesia, e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto, e l’interessante per mezzo». A partire dal 1846, la lettera fu pubblicata più volte, sempre contro il volere di Manzoni, e diffuse nel dibattito letterario idee che per Manzoni avevano smesso di valere pochi mesi dopo che le aveva enunciate. Nel 1871 Manzoni, dunque, pubblica l'unica versione valida del Romanticismo, un'opera che riguarda la sola poesia, per la quale la regola aurea è che «deva proporsi per oggetto il vero, come l'unica sorgente d'un diletto nobile e durevole». Ma che cosa sia questo benedetto vero, Manzoni non lo dice, e il Romanticismo pertanto mi appare inconcludente.

Con questa interpretazione divergo radicalmente dall'approccio critico tradizionale, e pressoché univoco, che si è insinuato persino nella scuola e che dunque agisce in profondità nella cultura italiana. Secondo tale approccio, il Romanticismo esprimerebbe e sintetizzerebbe al meglio la poetica manzoniana con quella famosa formula contenuta nella versione manoscritta del 1823. Però, qui casca l'approccio, perché quella versione non può essere considerata rappresentativa del pensiero dell'autore. Infatti, in base a un principio filologico elementare, le versioni di un'opera precedenti all'ultima autorizzata dall'autore, e massimamente le versioni non autorizzate, si devono (confermo: devono) ignorare (il loro interesse, come FL del resto, riguarda lo studio dell'evoluzione del pensiero e dell'opera dell'autore, rappresentati unicamente – ripeto: unicamente – dall'ultima versione o edizione autorizzata).

Del resto, solo discutendo del Discorso sul romanzo storico mi sono potuto giovare della rassicurante presenza di altri interpreti, con alcuni dei quali, grandi e grandissimi (Carlo Tenca, Francesco De Sanctis, Folco Portinari), mi sono sentito, con sollievo, in diretta continuità. Nelle altre parti del mio contributo, invece, il confronto con le riflessioni altrui è stato importante, ma occasionale (Niccolò Tommaseo, Luca Toschi, Domenico De Robertis).

Molto più solido il supporto della critica testuale. Per mia fortuna, ho potuto contare su due edizioni critiche di FL, la vecchia mondadoriana Chiari-Ghisalberti e la nuova Colla-Italia-Raboni, compresa nell'Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessandro Manzoni, edita dal Centro Nazionale Studi Manzoniani – Casa del Manzoni. Molto utili saranno poi, per gli argomenti che discuto qui, le edizioni critiche in corso della Seconda minuta, di V e della Colonna infame. Nei passaggi di mio interesse, dunque, ho potuto contare su un dato testuale ormai sufficientemente stabilizzato e, in ogni caso, ho controllato direttamente i manoscritti, dove era necessario.

Mentre frugavo tra carte inedite mi sono sentito spesso indiscreto, e talvolta mi pareva di violare la privacy di un uomo che è uno dei nostri scrittori più importanti. Mi ha confortato un poco il sostegno che Michele Barbi offre ai critici che ricorrono all'inedito, violando sì l'intenzione dell'autore di non renderlo noto, ma gestendo criticamente un documento che l'autore ha pur lasciato sopravvivergli[1]; ma mi ha confortato molto di più l'immagine di Manzoni, che mi ha accompagnato benevola sempre, tranne quando discutevo del Discorso: qui mi appariva seccata, ma non ostile. Mi sento riconoscente nei suoi confronti, perché mi ha permesso di non sentirmi mai in conflitto con lui, anzi addirittura di scherzare insieme su una curiosissima coincidenza, una digressione personale che vorrei condividere:

Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l'ultimo[2].

La fonte di questa descrizione è la cronaca del bellanese Sigismondo Boldoni (morto di peste nel 1630), che assistette al passaggio delle truppe. Manzoni traduce pressoché alla lettera, tranne che per un dettaglio (in grassetto):

Transiere hactenus, legio peditum Merodis prima; secunda quingenti equites Principis Analtini; tum legio peditum Marchionis Brandeburgensis, quae per sex dies hoc oppidum hostiliter diripuit; quarta manus equitum Montecucoli ad quadringentos; quinta pars legionis equitum Ferrarii; sexta legio peditum Acerboni, quae huc divertit; septimus Aldringhen per supercilium montis legionem plenissimam, et florentissima duxit; quatuor milia peditum erant. Successit iis peditatus Ferstenbergensis, qui omnium maxime nos afflixit; tum Saxonici equitatus; ad octingentos ii fuere. Nudius tertius Coloredi peditatus; heri Valestaini legio cum Legato tantum, non cum ipso Principe, hic fuere[3].
Avrà avuto i suoi motivi. Forse, conoscendo tutti ma quell'Acerboni no, non avrà avuto voglia di indagare[4].

Riprendendo il filo principale del discorso, non avevo una tesi precostituita e, per quanto essa possa apparire sconcertante, non è contro Manzoni (né vedo affinità con l'antimanzonismo)[5]. Non lo è nelle mie intenzioni e sono convinto che non lo sia nemmeno negli esiti, che mi pare di avere ottenuto soprattutto per via di strumenti metodologici validi e applicabili a qualsiasi ricerca, anche se, a quanto pare, la ricerca non solo manzoniana segue oggi soprattutto altre strade (alcune validissime, altre, quelle ispirate a una qualche ideologia, molto meno). In ogni caso, proporre un altro modo di leggere l'opera di uno scrittore non significa essere contro lo scrittore.

Ne esce un altro Manzoni? Molto probabilmente sì: è un altro Manzoni quello a cui siamo (stati) abituati finora: un Manzoni perfetto, eroico. Uno scrittore capace di porsi assunti teorici rivoluzionari e poi persino di realizzarli nella pratica artistica. Un artista che sintetizza mirabilmente nello stesso e unico romanzo la poetica del vero (storico e morale) e il rinnovamento linguistico (del romanzo e degli italiani).

Che cosa cambia, dunque? Cambia il nostro punto di vista. Cambia l'idea che ci siamo fatti di Manzoni, l'idea indotta da lui e trasmessa da quasi duecento anni di critica, penetrata ovunque, nella scuola, nella cultura condivisa degli italiani, e diffusa persino all'estero (dove infatti si fa fatica a capire perché sia per noi così importante quel romanzo). Ma questa idea, come dice Paolo Conte, è un'idea come un'altra.

Un Manzoni meno grande? No. Anzi, ancora più grande. Spedire fuori strada al secondo capitolo generazioni di lettori è arte nell'arte. Un genio della comunicazione si aggiunge al genio della narrativa.

Quanto al genere di questa narrativa, non me ne occupo perché non riesco a vedere il problema. Per me, i Promessi sposi stanno benissimo sotto l'etichetta di romanzo storico e, tra i romanzi che possiamo etichettare in questo modo, a mio parere (ma è questione di gusti), resta il migliore.

Piuttosto, potrebbe essere riletta la storiografia sul genere del romanzo storico, presumibilmente fuorviata dal falso manzoniano, e riconsiderata l'influenza del Manzoni sui romanzi storici e sui romanzieri successivi. Agli specialisti la valutazione.

Ma il principale degli approfondimenti che il mio contributo sembra richiedere riguarda la risciacquatura, perché i principi linguistici adottati da Manzoni dovranno essere messi in relazione con la mutata prospettiva del romanzo. Anche qui, agli specialisti la valutazione.

Mi pare invece di offrire meno spunti a chi voglia soffermarsi sul Manzoni filosofo o sul Manzoni credente. Che vivesse la fede e il rapporto con la Chiesa in modo travagliato, è noto, e non aggiungo poi molto su tale travaglio, tranne forse qualche spunto per convalidare la scarsa simpatia che Manzoni aveva per la chiesa controriformista. Sulla vera considerazione che aveva per la Chiesa borromaica e in particolare per Federico Borromeo, invece, acquista peso un dato puramente fattuale: che il romanzo la vince sulla verità storica.

Mi pare che ne sia una prova il capitolo diciamo biografico su Federico. Nel passaggio da FL a V quel capitolo si imbruttisce, perché Manzoni si trova costretto a forzare il ritratto del Cardinale, cioè, per citare Bonagiunta Orbicciani, a «trare canzon per forza di scrittura», e dunque non riesce a fare di Federico il campione della spiritualità nel romanzo, sempre ammesso che possa essere considerato tale, ma per me no.

Poteva sentirsi rassicurato, Manzoni, dall'idea che Renzo e Lucia, scomunicati dalla Chiesa borromaica, potessero affrancarsi da quella giurisdizione e rientrare in quella romana, che non prevedeva quella scomunica per quel peccato (ma il decreto di Federico aveva ricevuto, come è ovvio, l'approvazione papale)? Ni. No, se si consideri quanto poco tali sottigliezze giuridiche potessero sedurre Manzoni, che quando voleva ragionare sapeva farlo benissimo per conto suo: il suo romanzo era e restava inappellabilmente per la sua coscienza in conflitto con la verità storica della Chiesa competente per territorio. Sì, invece, se si consideri che extra ecclesiam nulla salus, e che un perdono prima o poi, narrato o no, romano o ecumenico se non ambrosiano, potrebbe arrivare, e si spera di sì, e Dio solo lo sa.

Ma conta solo quello che pensava Manzoni. E quello che pensava Manzoni era che la morale per quanto non ortodossa di Renzo e Lucia qualcosa valesse. Se Manzoni salva il romanzo è anche per salvare quella morale, una morale che tende a coincidere un po' alla buona con la retta coscienza, che resiste anche al di sotto del minimo culturale, che è concepibile magari in dialetto dai poverelli, che deve essere comprensibile da tutti, che potrebbe essere accettabile anche da chi cattolico non sia, che aspira ad essere valida per tutti i casi della vita: «Se non istà bene [...] non bisogna farla».

Infine, una domanda: e la scuola? Lavorando a quell'edizione scolastica, ho potuto rendermi conto con dispiacere di alcune cose: a) che il romanzo viene ormai letto a frammenti; b) che molte edizioni scolastiche assecondano tale lettura... veloce, presentando un testo incompleto e addirittura sunteggiato dai curatori, e non dico altro; c) che le introduzioni, i commenti, le schede di approfondimento risentono spesso di un approccio critico-pedagogico-ideologico soffocante, che schiaccia lo studente sotto un'impalcatura che dà del tutto per scontati il testo e la sua bellezza; d) che le note di commento, in moltissimi casi, non solo non spiegano il testo (appunto perché lo danno per scontato), ma avrebbero bisogno di altre note affinché uno studente le potesse intendere (ma per cavarci che cosa, non saprei).

Ci siamo fidati troppo di Manzoni e troppo delle nostre idee su Manzoni. Che oggi si debba riscoprirlo, è una parola grossa, ma liberarlo da molte sovrastrutture è forse la chiave giusta per restituire a Manzoni il suo posto nella cultura italiana, e al suo romanzo la funzione, che forse nemmeno la Divina commedia svolge così efficacemente, di fornire a tutti gli italiani una storia comune, una mitologia condivisa, un alfabeto segreto e distintivo nel mondo.



Giovanni Acerboni

Manzoni e il vero falsificato. Saggio sui Promessi sposi e sulla poetica manzoniana, Prefazione di Maurizio Vitale, Aracne Editrice, Roma, 2012. ISBN 9788854853263, formato 14 x 21 cm, 300 pagine, 17 €.
 http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/catalogo/9788854853263-detail.html


[1] M. Barbi, Piano per un'edizione nazionale delle opere di Alessandro Manzoni, in "Annali manzoniani", vol. I, 1939, pp. 23-24.
[2] I promessi sposi. Testo critico della edizione definitiva del 1840, Tutte le opere di Alessandro Manzoni, vol. II, t. I, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, Mondadori, Milano 1954, p. 520. D'ora in poi anche in nota semplicemente Q.
[3] S. Boldoni, Epistolarum liber, Iudovido Monza, Milano 1651, p. 270.
[4] Con quei pochi dati a disposizione, ho fatto qualche ricerca, ma senza frutto. Si può pensare che quell'Acerboni sia stato un mercenario valtellinese, dato che Acerboni era ed è un cognome tipico della Valtellina. Dalla Valtellina discesero, fin da quegli anni, alcuni Acerboni, tra i quali i miei antenati che si stabilirono, passando verosimilmente da Bellano, in un paesino della Valsassina che si chiama Mornico, dove trascorro le vacanze nella casa di famiglia. Sul muro di una casa lungo la stradina principale c'è un affresco che ritrae San Carlo Borromeo alla sinistra della Vergine con il Bambino (S. Pietro alla destra). Il pittore che «Per Divocione Fece Lanno 1617» si chiamava Pietro Aserbone «de Mornicho».
[5] AaVv, L'antimanzonismo, a cura di G. Oliva, Bruno Mondadori, Milano 2009.

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