lunedì 17 ottobre 2016

Sul Nobel a Dario Fo

Nel 1997, quando Dario Fo vinse il Premio Nobel per la Letteratura, vivevo a Varsavia. Poiché Fo non era molto conosciuto in Polonia, alcune riviste mi chiesero un articolo. Intanto, leggevo che in Italia quel Nobel aveva disgustato più d'uno, anche per via della militanza comunista di Fo. Mi domandai dunque se ci fosse un modo di dare una risposta positiva al perché di quel Nobel, cioè una risposta non ideologica né strettamente letteraria, dato che era evidente che tra il Fo teatrante e il Fo (più Franca Rame) scrittore c'era un notevole dislivello. La risposta che mi diedi fu che l'Accademia di Svezia avesse voluto premiare lo spettacolo, del quale il testo è uno dei codici. Tale risposta mi pare che possa valere anche per spiegare o quanto meno per argomentare il Nobel di quest'anno, vinto da Bob Dylan nello stesso giorno della morte di Fo, e immediatamente seguito dalle medesime polemiche che avevano accompagnato il Nobel del 1997. Una specie di Mistero buffo: muore il giullare, gli subentra il menestrello: due Nobel allo spettacolo.
Ripubblico dunque il più completo di quegli articoli, che fu pubblicato in "Teatr" (ottobre 1998), tradotto da Anna Osmólska-Mętrak (entrambe le versioni si trovano scansionate nell'Archivio Franca Rame). Per completezza, segnalo che una versione light di questo articolo è stata pubblicata in "Wiedzy i Życia", aprile 1998 (versione polacca, versione italiana).

A Fo un Nobel aperto



La letteratura non è altro che sogno.
E allora, dove sognare meglio che a teatro?
(Borges)
 

Quei "Simpatici babbioni in smoking", quei "vecchi litigiosi troppo presi dalle loro beghe interne per accorgersi di quello che di nuovo c'è nel mondo", forse in preda a "una ciucca collettiva mediante la loro squisita vodka Absolut", con la premiazione di Dario Fo, il diciottesimo Nobel italiano (sesto per la letteratura dopo Carducci 1906, Deledda 1926, Pirandello 1934, Quasimodo 1959 e Montale 1975), hanno fatto arrabbiare parecchia gente in Italia (citazioni da "Il giornale" e "La stampa"). Non è la prima volta che il Nobel scontenta qualcuno. Del resto, forse proprio questa scoperta intenzione di far fermare il mondo a parlare e a riflettere di poesia può essere una delle chiavi del fascino di questo Premio. Un'altra è che il 10 dicembre è il giorno mondiale della cultura svedese che, con l'autorevolezza di un assegno miliardario, indica, giudica, esprime.
Negli ultimi anni, la linea sembra quella di privilegiare le letterature periferiche, emergenti, minoritarie. 1988: Naquib Mahfouz (Egitto), 1992: Derek Walcott (Caraibi). E poi anche Octavio Paz (Messico 1990), Nadine Gordimer (Sud Africa, 1991). E poi Jozif Brodskij (1987) e Wyslawa Szymborska (1996) voci di una letteratura senza patria (il russo-americano) e di una patria di confine (la polacca).
E l'Italia, quinta nazione più industrializzata del mondo, fondatrice dell'Unione Europea e terra in cui è stato prodotto ed è conservato un buon cinquanta per cento dell'arte occidentale, cosa c'entra? Se il premio Nobel fosse andato a un altro scrittore italiano direi che in Svezia avrebbero voluto interrompere questa linea. Ma con Fo la continuità prosegue, sorprendentemente.

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Per coglierla occorre rinunciare a uno dei più gravi limiti dell'esercizio intellettuale, e cioè l'interpetazione ideologica, che porta a vedere solo quello che fa comodo e a condannare quello che non piace o quello che non si riesce a spiegare. Qualsiasi lettura ideologica commenta il Nobel secondo il proprio tornaconto, sottovalutando un fatto semplicissimo: che ad assegnare il Nobel è l'Accademia di Svezia. Possiamo riconoscere valore alle sue scelte o possiamo ignorarle; meglio sarebbe interrogarsi sui perché. La cosa più inutile che possiamo fare è immaginare di sostituirci ad essa e assumere il ruolo di chi ha un'idea migliore. Infatti, anche grazie alle scelte che il tempo ha rivelato essere state infelici (nessun italiano oggi può inorgoglirsi del premio assegnato a Grazia Deledda) il Nobel mantiene inalterato il suo fascino e la sua autorevolezza nell'indicare un problema, una prospettiva.
Nel caso di Fo le opinioni ideologiche si sono ritrovate sotto l'ombrello dell'appartenenza politica (sinistra e destra), del perbenismo cattolico e del tradizionalismo della critica letteraria. Fo dà scandalo in tutti questi ambienti: è certamente di sinistra, ma nessuno è mai riuscito a strumentalizzarlo; è certamente anticattolico, ma non irreligioso; è certamente un attore, un regista, un costumista, uno scenografo, un pittore, un critico, un impresario, ma anche un prolifico e universalmente famoso drammaturgo.
Indipendentemente dalle sue scelte politiche e artistiche, Dario Fo è un completo uomo di teatro. Secondo Ferdinando Taviani: "la più importante opera di Fo è la sua persona, intesa come figura pubblica di qualcuno che corrode i confini dei generi definiti e inventa un modo d'essere del teatro" (Uomini di scena, uomini di libro, Bologna, Il Mulino, 1995). E questo è il punto fondamentale e più difficile da accettare: l'opera di Fo è un'opera di libertà. Libertà come condizione, ragione, sostanza e soprattutto forma stessa dell'arte.

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Al di là dei contenuti, che variano nel corso dei quarantacinque anni della sua carriera, due mi paiono le strutture più frequenti dell'opera teatrale di Fo: la commedia satirico-grottesca e la rappresentazione corale. Le accomuna una forte presenza della musica e in particolare della canzone, genere che Fo ha frequentato anche al di là dei suoi spettacoli (le musiche sono state spesso affidate al compositore del Piccolo Teatro di Milano, Fiorenzo Carpi) scrivendo i testi di alcune fra le canzoni più famose di Enzo Jannacci, medico-cantautore scoperto appunto da Dario Fo nei primi anni Sessanta (Vengo anch'io! No, tu no!, T'hoo compraa i calzett de seda, Ho visto un re).

Alla commedia, concepita e realizzata senza disgiungere le funzioni di autore, attore, regista, costumista, scenografo e impresario, Fo imprime caratteristiche molto originali nel panorama della drammaturgia italiana dei nostri anni, dominata dall'incapacità di liberarsi dall'immensa figura di Pirandello o costretta al recupero di ciò che di universale c'è nelle tradizioni locali (Eduardo De Filippo). La commedia di Fo ha una linea narrativa imprevedibile e irrispettosa di qualsiasi costrizione entro un genere. Le situazioni generano situazioni seguendo lo spunto più efficace dal punto di vista spettacolare, sacrificando volentieri la sequenza logica, la coerenza storica, quasi mai interessandosi dell'approfondimento psicologico, del dramma intimo. Dominano quindi il ritmo, le trovate tecniche, le possibililtà espressive della compagnia. Nato dentro il teatro, il teatro di Fo accoglie i contenuti e li piega alle esigenze del teatro.

Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), per esempio, si ispira viaggi di Cristoforo Colombo alla scoperta dell'America. Ma invece di seguire lo spunto storico, l'andamento della commedia si apre a infinite digressioni tematiche che spesso hanno origine da un dettaglio, da un gioco di parole. Si assiste quindi a lunghe pause, nelle quali l'azione si perde, e viene sostituita da gag, lazzi, canzoni, flashback, battute di attualità.

La colpa è sempre del diavolo (1965) è ambientata ai tempi dell'Inqusizione e riguarda l'esecuzione di alcuni eretici e di una indemoniata. Ben presto, però, l'attenzione viene focalizzata sul diavolo, un nano (poi manichino) che parla in dialetto veneto e che tenta di entrare nell'anima di vari personaggi, fra i quali il Duca, un monaco e una ragazza. Gli equivoci che genera provocano addirittura la morte del Duca, una sommossa popolare, l'arrivo dell'imperatore. Il tutto è tenuto insieme non da una trama riassumibile, ma da una serie di invenzioni teatrali (il Duca che maneggia la spada come una stecca da biliardo), scambi di persona, scene al buio, travestimenti, riconoscimenti, porte false, magie. 

Faccio solo una citazione, da Settimo: ruba un po' meno (del 1964). Verso la fine, sulla scena si svolgono contemporaneamente due azioni parallele. Da una parte un giudice parla al telefono con un superiore: stanno discutendo di gravissimi episodi di corruzione. Da un'altra parte del palco un Signore e una donna (Enea) stanno litigando.

Enea: Ma chi ti credi di essere?

Giudice: C'è di mezzo perfino...

Enea: Il primo ministro?

Giudice: Sì, anche lui col fratello e il cognato. Aspetti che guardo...

Enea: Che cosa hai in mente di fare?

Signore: Tanto non lo capiresti. E' tutto così strano.

Giudice: Sì, c'è anche lo zio vescovo...

Enea: Che c'è di strano?

La conclusione, nelle commedie di Fo, giunge non perché siano stati sfruttati tutti gli spunti, o perché i moltissimi fili disseminati si siano finalmente ricollegati, ma piuttosto perché lo scorrere sia pure continuamente interrotto dell'azione vi giunge quasi malgrado i suoi passaggi obbligati. Siamo, appunto, in una struttura aperta, in un'opera che varia di sera in sera, che cambia anche in rapporto al gradimento del pubblico o al contributo creativo degli attori. Anzi, l'opera cresce e si trasforma durante tutto il tempo della sua vita: dalle prove alle repliche. Il testo pubblicato testimonia una fase, non necessariamente l'ultima, di questo lavoro in progress, proprio come accadeva ai comici dell'arte.

Diverso il discorso che riguarda le rappresentazioni corali frequenti soprattutto negli anni Settanta. Attraverso un paziente e non facile lavoro di recupero e rielaborazione di forme artistiche tradizionali e popolari, Fo monta spettacoli privi di trama e di riferimenti alla teatralità corrente, nei quali protagonista è soprattutto il popolo.

In Ci ragiono e canto (del 1969) Fo assembla canti popolari, legati al lavoro contadino e operaio di tutta la tradizione italiana, fin dal Medioevo. In taluni casi si tratta di canzoni autentiche, riemerse grazie a un lavoro di tipo filologico; in altri casi Fo rielabora, in altri ancora compone ex novo. E lo stesso vale per le musiche.  

Vorrei morire anche stasera se dovessi pensare che non è servito a niente (del 1970) è una celebrazione della natura popolare della Resistenza, riproposta attraverso le testimonianze di protagonisti, di condannati. Fo mantiene anche il linguaggio originale, dialetti settentrionali privi, per lo più, di strutture grammaticali ed espedienti stilistici, ma ricchissimi di una espressività appunto popolare, autentica, non filtrata dalla letteratura. Questa operazione gli permette di raggiungere uno degli obiettivi politici intrinseci: affermare, contro la storiografia di parte avversa, che la Resistenza fu un movimento di popolo, di ispirazione marxista, una prefigurazione, una preparazione della lotta di classe (che questa sia l'unica verità, è un altro discorso).

Molto audace, infine, Fedayn (del 1972). Sul palco alcuni fedayn, incontrati da Franca Rame durante un viaggio in Palestina, eseguono canzoni palestinesi, raccontano storie di vita e di battaglia. 

Attraverso la rappresentazione corale, Fo apre il suo modo di far teatro a diverse forme culturali, rinuncia, cioè, alla posizione di autore e persino di attore, limitandosi a quella di supervisore e di organizzatore, a vantaggio di un'arte che non potrebbe emergere in altro modo. Fo, cioè, mette il suo teatro a disposizione di coloro che non potrebbero averlo. Non solo. Rinuncia alla classica funzione del'intellettuale che si ispira alla cultura popolare e sceglie di scomparire nell'opera popolare nel momento stesso in cui le dà voce.

Mistero buffo (del 1969, poi riproposto innumerevoli volte, in varie versioni) è lo spettacolo che riunisce in sé la duplice vocazione teatrale di Fo: la commedia e il recupero della voce inespressa dei popoli. Attraverso un profondo lavoro di ricerca della teatralità spontanea medioevale, attraverso il recupero dell'arte mimica dei giullari (che a Fo può riuscire grazie alle sue straordinarie doti istrioniche) Fo rappresenta una serie di monologhi di tradizione popolare. Il Mistero buffo è un repertorio sufficiente per due o tre serate. Fo sceglie gli episodi seguendo l'ispirazione del momento o anche le sollecitazioni del pubblico. Ogni scena dura una decina di minuti e viene preceduta da una introduzione nella quale l'attore racconta brevemente la linea narrativa, cita le fonti e ricostruisce il contesto storico.

Il grammelot dello Zanni è la rappresentazione della fame del precursore di Arlecchino. Il giullare, stremato dalla fame, sta quasi per mangiare se stesso, poi il pubblico, poi Dio. Infine si addormenta e sogna di trovarsi in una cucina e di prepararsi un abbondantissimo pranzo, che ingurgita voracemente. Al tristissimo risveglio riesce a catturare una mosca e a mangiarla.

In Bonifacio VIII viene rappresentato satiricamente il degrado morale della Chiesa medioevale attraverso la figura di un papa particolarmente attento agli aspetti temporali del suo compito. Il papa si veste da processione - e lo spettacolo consiste quasi tutto nella mimica di questa operazione. In strada incontra il corteo che accompagna Cristo al Calvario. I due si incontrano e parlano. Cristo si stupisce dell'esteriorità del suo successore e gli impedisce di farsi aiutare a portare la croce. Il papa insiste e riceve pertanto un calcio da Gesù. A questo punto, offeso, Bonifacio riprende la glorificazione di se stesso e del potere temporale della sua Chiesa.

Decisivo per comprendere l'eccezionalità del Mistero buffo è però il linguaggio. Questi monologhi sono recitati in una lingua ricreata da Fo mischiando, senza troppe preoccupazioni storico-filologiche, i suoni e le voci dei vari dialetti della valle del Po, la regione dove più che altrove erano attivi i giullari e dove sono state documentate le prime compagnie di comici dell'arte. Se sul piano scientifico la lingua del Mistero buffo non ha molto valore, dal punto di vista teatrale si tratta di una (re)invenzione geniale che ha permesso a questo spettacolo di essere compreso ovunque nel mondo e persino ovunque in Italia, dove la frammentazione linguistica è tale che un dialetto possa essere compreso solo nella zona dove viene parlato (in tal senso questo linguaggio è stato molto apprezzato dal nostro maggiore linguista, Tullio De Mauro).

Il ricorso all'arte dei giullari non ha in Fo alcun intento di restauro archeologico: dei giullari gli interessa soprattutto l'essere voce libera, fuori dagli schemi, fuori dai circuiti culturali, fuori dai temi della letteratura tradizionale. Il giullare godeva di una specie di impunità, cioè poteva dire quello che voleva. In realtà questa libertà di parola fu una sua conquista e in particolare fu il frutto di un'arte senza parola. Perché senza un testo, nessuno poteva esercitare la censura preventiva. Credo che questo sia l'aspetto dell'arte dei giullari che maggiormente abbia interessato Fo, poiché in questo senso poteva allacciare il proprio spirito militante alla tradizione teatrale e, ciò che più conta, alla più esclusivamente italiana delle esperienze teatrali.

E qui veniamo alla questione dei contenuti, sui quali Fo ha intenzionalmente cercato e trovato, accanto agli entusiasti, anche molti, moltissimi detrattori e, diciamolo pure, nemici (nemici politici: Franca Rame fu violentata dai fascisti nel 1973).

Tutto il teatro di Fo, e specialmente il teatro degli anni Sessanta e Settanta, è una grande occasione militante. Nelle commedie, anche in quelle più strutturate, ampio è lo spazio lasciato alla citazione in diretta dei fatti di attualità, alla satira di un ministro, alla polemica contro il sistema capitalistico, alla denuncia dell'imperialismo americano, alla polemica eretica contro la degenerazione della spiritualità nella struttura istituzionale e temporale della Chiesa (gli eretici "sono dei matti: pretendono che i cattolici applichino il Vangelo alla lettera, figurati!", La colpa è sempre del diavolo).

Le rappresentazioni corali, poi, erano, più che spettacoli, momenti di trasmissione collettiva della cultura, cultura alternativa, come si diceva allora. Ciò che ha reso difficile la convivenza di Fo con ogni forma di organizzazione del potere e delle idee (e gli accademici svedesi lo hanno scritto nella motivazione) è il suo continuo insistere sul conflitto (per lui implicito) fra popolo e potere. Questa posizione, in Italia, poteva piacere solo a sinistra, ma non fino al punto di mettere in dubbio che il Partito (Comunista) fosse a suo modo una organizzazione del potere e, soprattutto, delle idee. In ogni opera di Fo la sopraffazione dei poveri, degli analfabeti, dei deboli è il tema fondamentale e l'occasione da cui partono le critiche, ora satiriche, ora rabbiose, a chi di queste sopraffazioni è responsabile. E cioè il potere nelle sue varie forme: la Chiesa, la polizia, l'esercito, il sistema capitalistico sono i bersagli più frequenti. Ma ce n'è per tutti, anche per il concetto di democrazia che non è che la maschera sorridente di una borghesia capitalista aggressiva e cinica.

Trasgressivo, sempre all'opposizione, irriverente. Ma, diversamente dal teatro impegnato novecentesco (Brecht), mai didascalico. Il rapporto con il suo pubblico è sempre diretto. Anche durante lo spettacolo Fo ascolta il pubblico, gli risponde, ne accetta le sollecitazioni, ne inserisce gli spunti, ne accetta le critiche. Lo scrittore svedese Bjoern Linnel, editore di Fo in Svezia, ha detto che "dal popolo Fo impara e al popolo Fo restituisce".

Esemplare il caso di Morte accidentale di un anarchico (del 1970). Esplicitamente legato alla morte di Giuseppe Pinelli, anarchico accusato ingiustamente della strage di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969: fu l'inizio di tredici anni di terrorismo rosso e nero), il testo è la confutazione della versione ufficiale: che Pinelli si sia suicidato gettandosi da una finestra del quarto piano della Questura. Fo, come osserva Paolo Puppa (Il teatro di Dario Fo. Dalla scena alla piazza, Venezia, Marsilio, 1978; Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Bari, Laterza, 1990), realizza il punto di massima identificazione con l'immaginario del pubblico, interpretando il clown dissacratore che riesce a penetrare dove nessuno può entrare (la questura, in questo caso), parlare con i responsabili ultimi e segreti di tutti i misteri e di tutte le ingiustizie. E può smascherarli, farli confessare e persino farli passare dalla propria parte (i poliziotti alla fine cantano cori anarchici). C'è un forte messaggio positivo indotto da tale struttura: il teatro canalizza la rabbia collettiva verso una verità a portata di mano e crea il mito della consapevolezza che prevale sul potere. Il teatro quindi si pone come un rito in cui il problema viene risolto, sia pure solo simbolicamente. Il critico Oliviero Ponte di Pino ha scritto che Fo "ha capito che il teatro può essere un mezzo di liberazione, e che la liberazione può essere una festa" ("il manifesto", 10 ott. 1997). Ecco: è il matto a dire la verità e a dirla in modo comico. In più, egli è l'unico  poterla dire impunemente. Ecco il giullare moderno, ecco lo spazio che Fo si è ritagliato in modo del tutto originale nel sistema teatrale italiano.

Fo è comunque molto più che un giullare: non va dimenticato che è anche regista e scenografo, cioè è un completo realizzatore di idee artistiche. Le sue regie sono caratterizzate soprattutto dal ritmo e da un rapporto aperto con gli altri attori. Dice Fo:

Personalmente, non riesco a disgiungere la mia attività di commediografo da quella di scenografo, costumista, regista, interprete. Persino quando lo spettacolo è già andato in scena continuo a svolgere il lavoro registico, nel senso che talvolta improvviso e, per conseguenza, devo aiutare gli attori a seguirmi, improvvisando a loro volta. Intendo ribadire che io recito le situazioni, non le battute. Sotto tale aspetto credo di trovarmi nel solco, o nella tradizione, della Commedia dell'Arte [...]. In televisione mi è capitato di recitare in spettacoli con scenografie allestite da altri. [...] Durante la recita io pensavo al testo, a ciò che dovevo 'inventare' mentre recitavo, senza curarmi della scenografia da altri allestita [...]. E' mia convinzione che la funzione della scenografia sia quella di supporto, più che di commento [...]. Un principio che non trascuro è questo: un testo comico richiede una scenografia realistica.


Tutto ciò è difficile da accettare e persino da comprendere. Più semplice è giudicare. Difficile è riconoscere un alto valore letterario a questa opera. La letteratura in Italia è da sempre in grande conflitto con il teatro, che essa considera una spesso volgare e quasi sempre irrispettosa interpretazione del testo. Giullare, nell'italiano corrente, ha infatti assunto una serie di significati negativi: moralmente ambiguo, culturalmente povero, artisticamente comico, stilisticamente volgare, socialmente destabilizzante. In questo senso è stato usato anche dall'"Osservatore romano": dopo cinque Nobel a scrittori di "cotanto senno, ora un giullare". Quella della Chiesa è la condanna più severa e più miope, perché attraverso Fo esprime la sua radicale avversione a tutto il teatro.

Certo, è legittimo nutrire forti resistenze per le idee politiche di Fo, che soprattutto negli anni Settanta ha assunto posizioni operaiste eccessive persino per il Partito Comunista. I tempi sono cambiati e anche Fo. Scrive il critico teatrale Ugo Ronfani: "l'intellettuale europeo ha pur diritto ai suoi errori e ai suoi ripensamenti. E se Fo non è certamente propenso a parlare di errori, è certo che di ripensamenti ne ha avuti, troppo intelligente essendo per non rendersi conto che la fine della guerra fredda, delle utopie, delle ideologie, ha imposto di modificare atteggiamenti verso politica, cultura e società" ("Il giorno", 10 ott. 1997).

Per intendere Fo e per comprendere il senso di questo Nobel occorre dunque liberarsi da interpretazioni ideologiche e accettare il fatto che per l'Accademia di Svezia, il teatro, la funzione di artista e di intellettuale svolta da Fo, vanno considerate coerenti con la Letteratura. Si tratta, evidentemente, di un concetto di letteratura aperto, innovativo, provocatorio e persino contro, appunto, la rigidità degli schemi ideologici. Appare evidente quindi che solo una prospettiva pienamente teatrale possa spiegare questo Nobel. Il punto infatti non è l'opinione, è la prospettiva. Questo Nobel premia innanzitutto il teatro italiano in ciò che ha di unico: l'espressività animalesca e la raffinata cultura letteraria che si incontrano e si armonizzano in quegli attori, autori, improvvisatori che furono e sono i guitti, i giullari. La tradizione è lunghissima. Qualche nome: il Ruzante, Francesco Andreini e, in questo secolo, i napoletani Raffaele Viviani e Eduardo De Filippo. Inoltre, attraverso quello italiano, il Nobel a Fo premia tutto il Teatro e, spezzando i vincoli delle classificazioni e dei generi, lo pone sullo stesso piano della letteratura, quale manifestazione artistica della parola, senza più distinguere se essa sia scritta, parlata o recitata. Ancora Ronfani:
"A Stoccolma si sono celebrate le esequie della lingua della Belle Lettere e, attraverso la farsa satirica, il grammelot, il gesto dei comici dell'arte da lui genialmente rinnovato, si è voluto riconoscere il vigore di una espressività e di una comunicazione, quelle della scena, nei suoi codici fin qui ignorati: e questa potrebbe essere davvero una sorta di rivoluzione copernicana della cultura".

Ecco la continuità di questo con i precedenti Nobel: l'Accedemia di Svezia vuole dare al mondo dei segnali forti di riflessione e di aggiornamento. E quindi benvenuto il Nobel a Fo, il più divertente, aperto, imprevedibile Premio Nobel che sia mai stato assegnato. Un premio Nobel bellissimo.

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P.S. C'è ancora qualcosa che vorrei dire. Ma si tratta di elucubrazioni personali che preferisco tenere separate dal discorso critico. C'è qualcosa che non mi soddisfa in tutto quello che ho appena finito di dire. C'è qualcosa che manca. Possibile che a Stoccolma si siano accorti solo oggi che il teatro non è poi estraneo alla letteratura? Sì, è possibile, ma mi pare, anche in questo caso, una risposta debole. E poi, perché solo oggi? Un critico italiano, Giorgio Bertone, ha parlato di Teatro e Letteratura alleati finalmente contro i mass-media e in particolare contro la televisione. C'è una intuizione giusta e una conclusione pessimista. Condivido l'idea dell'alleanza, ma vorrei procedere più positivamente. Il teatro è forse l'unica arte naturalmente multimediale. Resta tuttavia, nonostante alcune sperimentazioni, nel solco della comunicazione che segue la linea autore-opera-pubblico. Mi pare che il Nobel, più che premiare il migliore indichi una direzione, una problematica. E se la problematica fosse l'arte del futuro? E se Stoccolma ci avesse provocato solo per farci riflettere sul fatto che, in fondo, oggi non è più tanto la differenza di genere a riguardare il futuro ma la differenza fra due diversi standard della comunicazione culturale? Il teatro, essendo la punta più avanzata, in quanto multimediale, della comunicazione tradizionale, può dunque diventare il ponte sul futuro. O può diventare il confine fra un'arte millenaria che non potrà rinnovarsi senza snaturarsi e continuerà sulla sua strada, e un'arte nuova nella quale l'autore sarà confuso con il pubblico nell'oggetto. E quest'arte nuova seguirà strade imprevedibili: oggi mancano più le idee che le tecnologie. Ma è questione di tempo. Due mondi separati, paralleli? Ci sono possibilità di incrocio? Vedremo.

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