Ripubblico dunque il più completo di quegli articoli, che fu pubblicato in "Teatr" (ottobre 1998), tradotto da Anna Osmólska-Mętrak (entrambe le versioni si trovano scansionate nell'Archivio Franca Rame). Per completezza, segnalo che una versione light di questo articolo è stata pubblicata in "Wiedzy i Życia", aprile 1998 (versione polacca, versione italiana).
A Fo un Nobel aperto
La letteratura non è altro che sogno.
E allora, dove sognare meglio che a teatro?
(Borges)
Quei "Simpatici babbioni in smoking", quei
"vecchi litigiosi troppo presi dalle loro beghe interne per accorgersi di
quello che di nuovo c'è nel mondo", forse in preda a "una ciucca
collettiva mediante la loro squisita vodka Absolut", con la premiazione di
Dario Fo, il diciottesimo Nobel italiano (sesto per la letteratura dopo
Carducci 1906, Deledda 1926, Pirandello 1934, Quasimodo 1959 e Montale 1975),
hanno fatto arrabbiare parecchia gente in Italia (citazioni da "Il
giornale" e "La stampa"). Non è la prima volta che il Nobel
scontenta qualcuno. Del resto, forse proprio questa scoperta intenzione di far
fermare il mondo a parlare e a riflettere di poesia può essere una delle chiavi
del fascino di questo Premio. Un'altra è che il 10 dicembre è il giorno mondiale
della cultura svedese che, con l'autorevolezza di un assegno miliardario,
indica, giudica, esprime.
Negli ultimi anni, la linea sembra quella di privilegiare le
letterature periferiche, emergenti, minoritarie. 1988: Naquib Mahfouz (Egitto),
1992: Derek Walcott (Caraibi). E poi anche Octavio Paz (Messico 1990), Nadine
Gordimer (Sud Africa, 1991). E poi Jozif Brodskij (1987) e Wyslawa Szymborska
(1996) voci di una letteratura senza patria (il russo-americano) e di una
patria di confine (la polacca).
E l'Italia, quinta nazione più industrializzata del mondo,
fondatrice dell'Unione Europea e terra in cui è stato prodotto ed è conservato
un buon cinquanta per cento dell'arte occidentale, cosa c'entra? Se il premio
Nobel fosse andato a un altro scrittore italiano direi che in Svezia avrebbero
voluto interrompere questa linea. Ma con Fo la continuità prosegue,
sorprendentemente.
***
Per coglierla occorre rinunciare a uno dei più gravi limiti
dell'esercizio intellettuale, e cioè l'interpetazione ideologica, che porta a
vedere solo quello che fa comodo e a condannare quello che non piace o quello
che non si riesce a spiegare. Qualsiasi lettura ideologica commenta il Nobel
secondo il proprio tornaconto, sottovalutando un fatto semplicissimo: che ad
assegnare il Nobel è l'Accademia di Svezia. Possiamo riconoscere valore alle
sue scelte o possiamo ignorarle; meglio sarebbe interrogarsi sui perché. La
cosa più inutile che possiamo fare è immaginare di sostituirci ad essa e
assumere il ruolo di chi ha un'idea migliore. Infatti, anche grazie alle scelte
che il tempo ha rivelato essere state infelici (nessun italiano oggi può
inorgoglirsi del premio assegnato a Grazia Deledda) il Nobel mantiene
inalterato il suo fascino e la sua autorevolezza nell'indicare un problema, una
prospettiva.
Nel caso di Fo le opinioni ideologiche si sono ritrovate
sotto l'ombrello dell'appartenenza politica (sinistra e destra), del perbenismo
cattolico e del tradizionalismo della critica letteraria. Fo dà scandalo in
tutti questi ambienti: è certamente di sinistra, ma nessuno è mai riuscito a
strumentalizzarlo; è certamente anticattolico, ma non irreligioso; è certamente
un attore, un regista, un costumista, uno scenografo, un pittore, un critico,
un impresario, ma anche un prolifico e universalmente famoso drammaturgo.
Indipendentemente dalle sue scelte politiche e artistiche,
Dario Fo è un completo uomo di teatro. Secondo Ferdinando Taviani: "la più
importante opera di Fo è la sua persona, intesa come figura pubblica di
qualcuno che corrode i confini dei generi definiti e inventa un modo d'essere
del teatro" (Uomini di scena, uomini di libro, Bologna, Il Mulino,
1995). E questo è il punto fondamentale e più difficile da accettare: l'opera
di Fo è un'opera di libertà. Libertà come condizione, ragione, sostanza e
soprattutto forma stessa dell'arte.
***
Al di là dei contenuti, che variano nel corso dei
quarantacinque anni della sua carriera, due mi paiono le strutture più
frequenti dell'opera teatrale di Fo: la commedia satirico-grottesca e la rappresentazione
corale. Le accomuna una forte presenza della musica e in particolare della
canzone, genere che Fo ha frequentato anche al di là dei suoi spettacoli (le
musiche sono state spesso affidate al compositore del Piccolo Teatro di Milano,
Fiorenzo Carpi) scrivendo i testi di alcune fra le canzoni più famose di Enzo
Jannacci, medico-cantautore scoperto appunto da Dario Fo nei primi anni
Sessanta (Vengo anch'io! No, tu no!, T'hoo compraa i calzett de seda, Ho
visto un re).
Alla commedia, concepita e realizzata senza disgiungere le
funzioni di autore, attore, regista, costumista, scenografo e impresario, Fo
imprime caratteristiche molto originali nel panorama della drammaturgia
italiana dei nostri anni, dominata dall'incapacità di liberarsi dall'immensa
figura di Pirandello o costretta al recupero di ciò che di universale c'è nelle
tradizioni locali (Eduardo De Filippo). La commedia di Fo ha una linea
narrativa imprevedibile e irrispettosa di qualsiasi costrizione entro un
genere. Le situazioni generano situazioni seguendo lo spunto più efficace dal
punto di vista spettacolare, sacrificando volentieri la sequenza logica, la
coerenza storica, quasi mai interessandosi dell'approfondimento psicologico,
del dramma intimo. Dominano quindi il ritmo, le trovate tecniche, le
possibililtà espressive della compagnia. Nato dentro il teatro, il teatro di Fo
accoglie i contenuti e li piega alle esigenze del teatro.
Isabella, tre
caravelle e un cacciaballe (1963), per esempio, si ispira viaggi di
Cristoforo Colombo alla scoperta dell'America. Ma invece di seguire lo spunto
storico, l'andamento della commedia si apre a infinite digressioni tematiche
che spesso hanno origine da un dettaglio, da un gioco di parole. Si assiste
quindi a lunghe pause, nelle quali l'azione si perde, e viene sostituita da
gag, lazzi, canzoni, flashback, battute di attualità.
La colpa è sempre del
diavolo (1965) è ambientata ai tempi dell'Inqusizione e riguarda
l'esecuzione di alcuni eretici e di una indemoniata. Ben presto, però,
l'attenzione viene focalizzata sul diavolo, un nano (poi manichino) che parla
in dialetto veneto e che tenta di entrare nell'anima di vari personaggi, fra i
quali il Duca, un monaco e una ragazza. Gli equivoci che genera provocano
addirittura la morte del Duca, una sommossa popolare, l'arrivo dell'imperatore.
Il tutto è tenuto insieme non da una trama riassumibile, ma da una serie di
invenzioni teatrali (il Duca che maneggia la spada come una stecca da
biliardo), scambi di persona, scene al buio, travestimenti, riconoscimenti,
porte false, magie.
Faccio solo una citazione, da Settimo: ruba un po' meno
(del 1964). Verso la fine, sulla scena si svolgono contemporaneamente due
azioni parallele. Da una parte un giudice parla al telefono con un superiore:
stanno discutendo di gravissimi episodi di corruzione. Da un'altra parte del
palco un Signore e una donna (Enea) stanno litigando.
Enea: Ma chi ti credi di essere?
Giudice: C'è di mezzo perfino...
Enea: Il primo ministro?
Giudice: Sì, anche lui col fratello e il cognato. Aspetti
che guardo...
Enea: Che cosa hai in mente di fare?
Signore: Tanto non lo capiresti. E' tutto così strano.
Giudice: Sì, c'è anche lo zio vescovo...
Enea: Che c'è di strano?
La conclusione, nelle commedie di Fo, giunge non perché
siano stati sfruttati tutti gli spunti, o perché i moltissimi fili disseminati
si siano finalmente ricollegati, ma piuttosto perché lo scorrere sia pure
continuamente interrotto dell'azione vi giunge quasi malgrado i suoi passaggi
obbligati. Siamo, appunto, in una struttura aperta, in un'opera che varia di
sera in sera, che cambia anche in rapporto al gradimento del pubblico o al
contributo creativo degli attori. Anzi, l'opera cresce e si trasforma durante
tutto il tempo della sua vita: dalle prove alle repliche. Il testo pubblicato
testimonia una fase, non necessariamente l'ultima, di questo lavoro in
progress, proprio come accadeva ai comici dell'arte.
Diverso il discorso che riguarda le rappresentazioni corali
frequenti soprattutto negli anni Settanta. Attraverso un paziente e non facile
lavoro di recupero e rielaborazione di forme artistiche tradizionali e
popolari, Fo monta spettacoli privi di trama e di riferimenti alla teatralità
corrente, nei quali protagonista è soprattutto il popolo.
In Ci ragiono e
canto (del 1969) Fo assembla canti popolari, legati al lavoro contadino e
operaio di tutta la tradizione italiana, fin dal Medioevo. In taluni casi si
tratta di canzoni autentiche, riemerse grazie a un lavoro di tipo filologico;
in altri casi Fo rielabora, in altri ancora compone ex novo. E lo stesso
vale per le musiche.
Vorrei morire anche stasera se dovessi pensare che non
è servito a niente (del 1970) è una celebrazione della natura popolare
della Resistenza, riproposta attraverso le testimonianze di protagonisti, di
condannati. Fo mantiene anche il linguaggio originale, dialetti settentrionali
privi, per lo più, di strutture grammaticali ed espedienti stilistici, ma
ricchissimi di una espressività appunto popolare, autentica, non filtrata dalla
letteratura. Questa operazione gli permette di raggiungere uno degli obiettivi
politici intrinseci: affermare, contro la storiografia di parte avversa, che la
Resistenza fu un movimento di popolo, di ispirazione marxista, una
prefigurazione, una preparazione della lotta di classe (che questa sia l'unica
verità, è un altro discorso).
Molto audace, infine, Fedayn (del 1972).
Sul palco alcuni fedayn, incontrati da Franca Rame durante un viaggio in
Palestina, eseguono canzoni palestinesi, raccontano storie di vita e di
battaglia.
Attraverso la rappresentazione corale, Fo apre il suo modo di far
teatro a diverse forme culturali, rinuncia, cioè, alla posizione di autore e
persino di attore, limitandosi a quella di supervisore e di organizzatore, a
vantaggio di un'arte che non potrebbe emergere in altro modo. Fo, cioè, mette
il suo teatro a disposizione di coloro che non potrebbero averlo. Non solo.
Rinuncia alla classica funzione del'intellettuale che si ispira alla cultura
popolare e sceglie di scomparire nell'opera popolare nel momento stesso in cui
le dà voce.
Mistero buffo (del 1969, poi riproposto innumerevoli
volte, in varie versioni) è lo spettacolo che riunisce in sé la duplice
vocazione teatrale di Fo: la commedia e il recupero della voce inespressa dei
popoli. Attraverso un profondo lavoro di ricerca della teatralità spontanea
medioevale, attraverso il recupero dell'arte mimica dei giullari (che a Fo può
riuscire grazie alle sue straordinarie doti istrioniche) Fo rappresenta una
serie di monologhi di tradizione popolare. Il Mistero buffo è un
repertorio sufficiente per due o tre serate. Fo sceglie gli episodi seguendo
l'ispirazione del momento o anche le sollecitazioni del pubblico. Ogni scena
dura una decina di minuti e viene preceduta da una introduzione nella quale
l'attore racconta brevemente la linea narrativa, cita le fonti e ricostruisce
il contesto storico.
Il grammelot dello Zanni è la rappresentazione
della fame del precursore di Arlecchino. Il giullare, stremato dalla fame, sta
quasi per mangiare se stesso, poi il pubblico, poi Dio. Infine si addormenta e
sogna di trovarsi in una cucina e di prepararsi un abbondantissimo pranzo, che
ingurgita voracemente. Al tristissimo risveglio riesce a catturare una mosca e
a mangiarla.
In Bonifacio VIII viene rappresentato satiricamente il
degrado morale della Chiesa medioevale attraverso la figura di un papa
particolarmente attento agli aspetti temporali del suo compito. Il papa si
veste da processione - e lo spettacolo consiste quasi tutto nella mimica di
questa operazione. In strada incontra il corteo che accompagna Cristo al
Calvario. I due si incontrano e parlano. Cristo si stupisce dell'esteriorità
del suo successore e gli impedisce di farsi aiutare a portare la croce. Il papa
insiste e riceve pertanto un calcio da Gesù. A questo punto, offeso, Bonifacio
riprende la glorificazione di se stesso e del potere temporale della sua
Chiesa.
Decisivo per comprendere l'eccezionalità del Mistero
buffo è però il linguaggio. Questi monologhi sono recitati in una lingua
ricreata da Fo mischiando, senza troppe preoccupazioni storico-filologiche, i
suoni e le voci dei vari dialetti della valle del Po, la regione dove più che
altrove erano attivi i giullari e dove sono state documentate le prime
compagnie di comici dell'arte. Se sul piano scientifico la lingua del Mistero
buffo non ha molto valore, dal punto di vista teatrale si tratta di una
(re)invenzione geniale che ha permesso a questo spettacolo di essere compreso
ovunque nel mondo e persino ovunque in Italia, dove la frammentazione
linguistica è tale che un dialetto possa essere compreso solo nella zona dove
viene parlato (in tal senso questo linguaggio è stato molto apprezzato dal
nostro maggiore linguista, Tullio De Mauro).
Il ricorso all'arte dei giullari
non ha in Fo alcun intento di restauro archeologico: dei giullari gli interessa
soprattutto l'essere voce libera, fuori dagli schemi, fuori dai circuiti
culturali, fuori dai temi della letteratura tradizionale. Il giullare godeva di
una specie di impunità, cioè poteva dire quello che voleva. In realtà questa
libertà di parola fu una sua conquista e in particolare fu il frutto di un'arte
senza parola. Perché senza un testo, nessuno poteva esercitare la censura
preventiva. Credo che questo sia l'aspetto dell'arte dei giullari che
maggiormente abbia interessato Fo, poiché in questo senso poteva allacciare il
proprio spirito militante alla tradizione teatrale e, ciò che più conta, alla
più esclusivamente italiana delle esperienze teatrali.
E qui veniamo alla questione dei contenuti, sui quali Fo ha
intenzionalmente cercato e trovato, accanto agli entusiasti, anche molti,
moltissimi detrattori e, diciamolo pure, nemici (nemici politici: Franca Rame
fu violentata dai fascisti nel 1973).
Tutto il teatro di Fo, e specialmente il teatro degli anni
Sessanta e Settanta, è una grande occasione militante. Nelle commedie, anche in
quelle più strutturate, ampio è lo spazio lasciato alla citazione in diretta
dei fatti di attualità, alla satira di un ministro, alla polemica contro il
sistema capitalistico, alla denuncia dell'imperialismo americano, alla polemica
eretica contro la degenerazione della spiritualità nella struttura
istituzionale e temporale della Chiesa (gli eretici "sono dei matti:
pretendono che i cattolici applichino il Vangelo alla lettera, figurati!",
La colpa è sempre del diavolo).
Le rappresentazioni corali, poi, erano, più che spettacoli,
momenti di trasmissione collettiva della cultura, cultura alternativa, come si
diceva allora. Ciò che ha reso difficile la convivenza di Fo con ogni forma di
organizzazione del potere e delle idee (e gli accademici svedesi lo hanno
scritto nella motivazione) è il suo continuo insistere sul conflitto (per lui
implicito) fra popolo e potere. Questa posizione, in Italia, poteva piacere
solo a sinistra, ma non fino al punto di mettere in dubbio che il Partito
(Comunista) fosse a suo modo una organizzazione del potere e, soprattutto,
delle idee. In ogni opera di Fo la sopraffazione dei poveri, degli analfabeti,
dei deboli è il tema fondamentale e l'occasione da cui partono le critiche, ora
satiriche, ora rabbiose, a chi di queste sopraffazioni è responsabile. E cioè
il potere nelle sue varie forme: la Chiesa, la polizia, l'esercito, il sistema
capitalistico sono i bersagli più frequenti. Ma ce n'è per tutti, anche per il
concetto di democrazia che non è che la maschera sorridente di una borghesia
capitalista aggressiva e cinica.
Trasgressivo, sempre all'opposizione, irriverente. Ma,
diversamente dal teatro impegnato novecentesco (Brecht), mai didascalico. Il
rapporto con il suo pubblico è sempre diretto. Anche durante lo spettacolo Fo
ascolta il pubblico, gli risponde, ne accetta le sollecitazioni, ne inserisce
gli spunti, ne accetta le critiche. Lo scrittore svedese Bjoern Linnel, editore
di Fo in Svezia, ha detto che "dal popolo Fo impara e al popolo Fo
restituisce".
Esemplare il caso di Morte accidentale di un anarchico
(del 1970). Esplicitamente legato alla morte di Giuseppe Pinelli, anarchico
accusato ingiustamente della strage di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre
1969: fu l'inizio di tredici anni di terrorismo rosso e nero), il testo è la
confutazione della versione ufficiale: che Pinelli si sia suicidato gettandosi
da una finestra del quarto piano della Questura. Fo, come osserva Paolo Puppa (Il
teatro di Dario Fo. Dalla scena alla piazza, Venezia, Marsilio, 1978; Teatro
e spettacolo nel secondo Novecento, Bari, Laterza, 1990), realizza il punto
di massima identificazione con l'immaginario del pubblico, interpretando il
clown dissacratore che riesce a penetrare dove nessuno può entrare (la
questura, in questo caso), parlare con i responsabili ultimi e segreti di tutti
i misteri e di tutte le ingiustizie. E può smascherarli, farli confessare e
persino farli passare dalla propria parte (i poliziotti alla fine cantano cori
anarchici). C'è un forte messaggio positivo indotto da tale struttura: il
teatro canalizza la rabbia collettiva verso una verità a portata di mano e crea
il mito della consapevolezza che prevale sul potere. Il teatro quindi si pone
come un rito in cui il problema viene risolto, sia pure solo simbolicamente. Il
critico Oliviero Ponte di Pino ha scritto che Fo "ha capito che il teatro
può essere un mezzo di liberazione, e che la liberazione può essere una
festa" ("il manifesto", 10 ott. 1997). Ecco: è il matto a dire la verità e a dirla in modo comico.
In più, egli è l'unico poterla dire
impunemente. Ecco il giullare moderno, ecco lo spazio che Fo si è ritagliato in
modo del tutto originale nel sistema teatrale italiano.
Fo è comunque molto più
che un giullare: non va dimenticato che è anche regista e scenografo, cioè è un
completo realizzatore di idee artistiche. Le sue regie sono caratterizzate
soprattutto dal ritmo e da un rapporto aperto con gli altri attori. Dice Fo:
Personalmente, non riesco a disgiungere la mia attività di commediografo da quella di scenografo, costumista, regista, interprete. Persino quando lo spettacolo è già andato in scena continuo a svolgere il lavoro registico, nel senso che talvolta improvviso e, per conseguenza, devo aiutare gli attori a seguirmi, improvvisando a loro volta. Intendo ribadire che io recito le situazioni, non le battute. Sotto tale aspetto credo di trovarmi nel solco, o nella tradizione, della Commedia dell'Arte [...]. In televisione mi è capitato di recitare in spettacoli con scenografie allestite da altri. [...] Durante la recita io pensavo al testo, a ciò che dovevo 'inventare' mentre recitavo, senza curarmi della scenografia da altri allestita [...]. E' mia convinzione che la funzione della scenografia sia quella di supporto, più che di commento [...]. Un principio che non trascuro è questo: un testo comico richiede una scenografia realistica.
Tutto ciò è difficile da accettare e persino da comprendere.
Più semplice è giudicare. Difficile è riconoscere un alto valore letterario a
questa opera. La letteratura in Italia è da sempre in grande conflitto con il
teatro, che essa considera una spesso volgare e quasi sempre irrispettosa
interpretazione del testo. Giullare, nell'italiano corrente, ha infatti assunto
una serie di significati negativi: moralmente ambiguo, culturalmente povero,
artisticamente comico, stilisticamente volgare, socialmente destabilizzante. In
questo senso è stato usato anche dall'"Osservatore romano": dopo cinque
Nobel a scrittori di "cotanto senno, ora un giullare". Quella della
Chiesa è la condanna più severa e più miope, perché attraverso Fo esprime la
sua radicale avversione a tutto il teatro.
Certo, è legittimo nutrire forti
resistenze per le idee politiche di Fo, che soprattutto negli anni Settanta ha
assunto posizioni operaiste eccessive persino per il Partito Comunista. I tempi
sono cambiati e anche Fo. Scrive il critico teatrale Ugo Ronfani:
"l'intellettuale europeo ha pur diritto ai suoi errori e ai suoi ripensamenti.
E se Fo non è certamente propenso a parlare di errori, è certo che di
ripensamenti ne ha avuti, troppo intelligente essendo per non rendersi conto
che la fine della guerra fredda, delle utopie, delle ideologie, ha imposto di
modificare atteggiamenti verso politica, cultura e società" ("Il
giorno", 10 ott. 1997).
Per intendere Fo e per comprendere il senso di questo Nobel
occorre dunque liberarsi da interpretazioni ideologiche e accettare il fatto
che per l'Accademia di Svezia, il teatro, la funzione di artista e di
intellettuale svolta da Fo, vanno considerate coerenti con la Letteratura. Si
tratta, evidentemente, di un concetto di letteratura aperto, innovativo,
provocatorio e persino contro, appunto, la rigidità degli schemi ideologici.
Appare evidente quindi che solo una prospettiva pienamente teatrale possa
spiegare questo Nobel. Il punto infatti non è l'opinione, è la prospettiva.
Questo Nobel premia innanzitutto il teatro italiano in ciò che ha di unico:
l'espressività animalesca e la raffinata cultura letteraria che si incontrano e
si armonizzano in quegli attori, autori, improvvisatori che furono e sono i
guitti, i giullari. La tradizione è lunghissima. Qualche nome: il Ruzante,
Francesco Andreini e, in questo secolo, i napoletani Raffaele Viviani e Eduardo
De Filippo. Inoltre, attraverso quello italiano, il Nobel a Fo premia tutto il
Teatro e, spezzando i vincoli delle classificazioni e dei generi, lo pone sullo
stesso piano della letteratura, quale manifestazione artistica della parola,
senza più distinguere se essa sia scritta, parlata o recitata. Ancora Ronfani:
"A Stoccolma si sono celebrate le esequie della lingua
della Belle Lettere e, attraverso la farsa satirica, il grammelot, il gesto dei
comici dell'arte da lui genialmente rinnovato, si è voluto riconoscere il
vigore di una espressività e di una comunicazione, quelle della scena, nei suoi
codici fin qui ignorati: e questa potrebbe essere davvero una sorta di
rivoluzione copernicana della cultura".
Ecco la continuità di questo con i precedenti Nobel:
l'Accedemia di Svezia vuole dare al mondo dei segnali forti di riflessione e di
aggiornamento. E quindi benvenuto il Nobel a Fo, il più divertente, aperto,
imprevedibile Premio Nobel che sia mai stato assegnato. Un premio Nobel
bellissimo.
***
Nessun commento:
Posta un commento