domenica 6 novembre 2016

Perché non ci piace il Nobel a Fo

"Era la solita, sporca guerra fra italiani,
col solito pretesto di liberar l'Italia dallo straniero.
Ma quel che più m'inorridiva a mi spaventava,
in quell'antico male,
era che io pure mi sentivo toccato dal contagio"
(Curzio Malaparte, La pelle)


L'editore Vanni Scheiwiller mi raccontava, senza prendersela troppo, che il Nobel a Wisława Szymborska (1996) aveva indotto il pubblico italiano ad acquistare meno di cinquemila copie del volume delle poesie, da lui stampato. Ciò per dire che il Nobel, almeno in Italia, non avvicina alla letteratura chi già non ne sia appassionato, e nemmeno scatena discussioni animate se quello scrittore l'abbia o no meritato. Niente di male, neh? La letteratura è una cosa bella, tra le tante.

Ma lo stesso discorso vale anche per gli altri premi Nobel (tranne il Nobel per la pace): nessuno che non sia - che so? - un chimico si butta a studiarla solo perché. In altri termini, i Nobel 'tecnici' fanno discutere i tecnici, e nessuno che non lo sia entra nel dibattito né si permette di dubitare della sensatezza dell'assegnazione.

Naturalmente, quando il Nobel va a un italiano, le cose cambiano: abbiamo più informazioni per discutere e anche chi non ne ha abbastanza sente quel premio come qualcosa di 'italiano', un po' come quando si vince una medaglia alle Olimpiadi in una disciplina mai sentita prima o mai praticata o persino antipatica (come per me il tiro al piattello). Ciò vale anche quando l'italiano in questione è italiano per modo di dire, come l'astrofisico Riccardo Giacconi, Nobel per la fisica nel 2002, che in realtà ha acquisito la cittadinanza statunitense, e che ha condotto tutta la sua vita professionale negli Stati Uniti e che deve la sua carriera a quel paese, non al nostro.

Quando invece un italiano vince il Nobel per la letteratura, che è una materia su cui tutti abbiamo informazioni e opinioni, succede di tutto, come è successo per Dario Fo nel 1997, quando vinse il Nobel, e ora, alla sua morte. Succede di tutto, ma non vale tutto: per cui, scrivo questo articolo.

Per cominciare, leviamo dal mazzo coloro che non sanno fare di meglio che interpretare le cose sulla base della propria (poca, di solito) esperienza personale. Il fenomeno è, naturalmente, rilevante solo grazie alle tecnologie dell'io, perché altrimenti queste chiacchiere rimarrebbero a livello di conversazione privata, dove non farebbero male a nessuno, anzi. Ma, con le tecnologie dell'io, la tentazione di sfidare il ridicolo pisciando controvento è evidentemente irresistibile. Esempio: Deborah Dirani, Quel mistero poco buffo e tanto noioso di Dario Fo, Huffington Post.

Entriamo nel merito.

In primo luogo, occorre essere conseguenti: o accettiamo che il Nobel lo assegna l'Accademia di Svezia che è, pur potendo commettere errori, titolare di un riconoscimento autorevole, forse il più autorevole al mondo, oppure no. Nel primo caso, il rispetto per le sue decisioni è dovuto a prescindere dal nostro accordo o disaccordo sulle sue scelte. Nel secondo caso, tanto varrebbe tacere, come chi tace del Premio Letterario Tra Dante e Baricco, Pure Io Mi Ci Ficco.

In secondo luogo, e dato che quella decisione la dobbiamo rispettare, dovremmo anche parametrare le nostre opinioni a qualcosa di pertinente con il fatto letterario, soprattutto se stiamo per esprimere il nostro disaccordo (l'espressione dell'accordo è meno impegnativa e meno rilevante e anzi del tutto inutile).


Pertinente e rilevante è discutere se il livello letterario di Fo sia tale da (pochi accennano al contributo di Franca Rame, vera e unica autrice di alcune? molte? opere intestate a Fo). Qui si apre un discorso enorme che riguarda non solo lo statuto della letteratura (cioè quali tipi di scrittura possono essere considerati letteratura) ma proprio i canoni estetici che definiscono la qualità letteraria. Un approccio tradizionalista è quello del Nobel  Mario Vargas Llosa (ma attenzione al giornalista, che cita e interpreta a modo suo). Non è mio scopo qui entrare nel merito: mi limito a dire che si tratta di interpretazioni (la mia sta ), punti di vista, opinioni, tutti leciti, alcuni corroborati da un'imponente letteratura, nessuno però tale da mettere in discussione la legittimità della scelta dell'Accademia di Svezia, e l'autorevolezza del premio. Altrimenti, si torna al punto primo del ragionamento.

Chi pensa (legittimamente) che Fo (o un altro) non meritasse il Nobel per la scarsa qualità letteraria delle sue opere compie spesso un passo successivo: indica un nome che lo meritava di più. Nel caso di Fo, si parlava di Luzi. Va bene Luzi, ma questo ragionamento implica che quel Nobel dovesse andare a un italiano, non a uno scrittore di qualsiasi altra nazione e migliore di Fo. Come se in Svezia decidessero prima che tocca a quel paese e poi, nella lista dei candidati, si trova il meno peggio. Non credo che operino in questo modo. Ma chi pensa così, cioè chi pensa che il fatto nazionalistico valga di più del livello letterario, dovrebbe poi essere conseguente e, pur di fronte a un Nobel poco gradito, dovrebbe divenire orgoglioso per un Nobel a un concittadino. Orgogliose, lo sono spesso anche le istituzioni, e ai massimi livelli:
  • Giosue Carducci (Nobel 1907): alla notizia della morte la Camera del Regno sospende la seduta. La regina Margherita dona al Comune di Bologna la casa e la biblioteca dello scrittore.
  • Grazia Deledda (Nobel 1926): il 14 agosto 2016, il Presidente della Repubblica ha rilasciato una dichiarazione nell'ottantesimo anniversario della morte di Grazia Deledda, la più dimenticata dei nostri Nobel per la letteratura.
  • Eugenio Montale (Nobel 1975): funerali di Stato, commemorazione in Senato (Fanfani e Spadolini).
Fo è appena morto. Ai suoi funerali non si è vista alcuna rappresentanza istituzionale di livello nazionale. Tuttavia è possibile che qualche riconoscimento istituzionale gli arrivi, prima o poi (tutto è possibile). Però, penso che, tra istituzioni ed establishment culturale, il trattamento che Fo ha ricevuto dal momento che ha vinto il Nobel e ora alla sua morte è indegno di lui e di noi, perché si basa sui seguenti banalissimi motivi, che infestano quasi ogni aspetto della nostra vita italiana.
Uno. Il solito livore ideologico: l'arte di Fo è stata negata in quanto comunista lui e funzionali al comunismo le opere. Ma l'interpretazione ideologica non è del tutto pertinente al fatto artistico, perché si limita a interpretare una parte dei contenuti e trascura il resto (vale la pena aggiungere che Fo non è stato l'unico comunista ad aver vinto il Nobel, e che il premio è andato a scrittori di ogni colore politico). Oltre un certo segno, diviene disonestà intellettuale e cattivo gusto. Esempio: Alessandro Sallusti, Dario fu (Il giornale).

Due. La solita venerazione ideologica: Fo è stato esaltato in quanto comunista, artista d'area. Non c'è dubbio che argomento di molte sue opere sia un'esplicita rappresentazione dell'attualità politica secondo il punto di vista di un militante comunista, quale Fo è stato, tranne forse che negli ultimi anni. Ma, come per chi comunista non è, anche per chi è comunista non è sufficiente l'analisi dei contenuti, quando si parla di valore artistico. Va poi aggiunto che Fo non ha fatto coincidere stabilmente il suo punto di vista con quello di un'organizzazione o di un'area politica. Fo non è mai stato il drammaturgo del partito, per intenderci. Tuttavia, gli scostamenti di Fo dalla 'linea' sono più profondi del semplice posizionamento politico e riguardano anche la struttura delle commedie: siamo proprio sicuri che rispondano a una visione comunista o marxista e non, piuttosto, a un approccio eversivo che deriva dalla natura satiristica dell'uomo e dell'attore? (ne parlo dopo).

Tre. La solita polemica ad hominem (sulla pretesa coerenza altrui): Fo ha mutato spesso stile (le sue commedie non sono tutte uguali), ha accettato compromessi (es. tornando in televisione, persino accettando il Nobel, che aveva dichiarato non interessargli), era comunista ma ricco, prima di fare il comunista è stato camicia nera (sul perché lo sia stato, mi pare interessante la testimonianza del figlio Jacopo, che si trova ; altre info ). Tutti argomenti non pertinenti.
Quattro. L'invidia: Fo è diventato famoso grazie ai canali della cultura di sinistra (ma fu estromesso dalla RAI) ed esponendosi in campagne politiche 'facili' (da ultimo l'antiberlusconismo). Argomenti non pertinenti.
Sommati insieme, questi quattro motivi ci dicono che Fo è stato strumentalizzato, sia da chi lo amava sia da chi lo detestava. Entrambi lo hanno usato per i propri scopi, che con il fatto letterario non c'entrano niente.

Voglio proporre un ragionamento per assurdo. Poniamo che Alessandro Manzoni vinca domani il Nobel. In un paese come il nostro, ci saranno decine o centinaia di persone che sosterranno almeno una delle seguenti cazzate (cazzate non significa falsità):
  • è stato raccomandato dai cattolici;
  • che orribile romanzo: non c'è nemmeno una scena di sesso;
  • finalmente il Nobel a uno scrittore che dice la verità;
  • la storia è originalissima e sublime, ma la lingua dei personaggi la fa suonare falsa;
  • non se lo meritava: era meglio Francesco Domenico Guerrazzi che ha scritto numerosi capolavori che si leggono d'un fiato, non un solo romanzone noiosissimo;
  • basta con questi Nobel all'iperletteratura! Meglio Mark Amerika;
  • è un opportunista ipocrita: da giovane era un ateo illuminista, poi è diventato un baciapile;
  • predica bene e razzola male: chiedete ai suoi figli Enrico e Matilde che razza di egotico anaffettivo è loro padre;
  • un codardo: nel pieno delle rivoluzioni patriottiche, scrive (orribili) poesie rivoluzionarie e le tiene nel cassetto per paura di finire in prigione come i suoi amici Pellico e Confalonieri (quella sì che è gente con le palle, che meritava il Nobel);
  • un pessimista protestante: ovvio che in Svezia l'abbiano premiato;
  • fece stalking religioso, costringendo sua moglie ad abiurare la sua fede protestante per divenire cattolica;
  • ma quando lo daranno a Stendhal?
  • Manzoni? uno snob: fingeva di fare l'agricoltore, tanto per giustificare le tenute in cui sfruttava Renzo e Lucia.
Tornando a Fo, è il momento di proporre i due motivi che mi paiono i principali per spiegare il trattamento indegno che gli è stato riservato.

Il primo motivo è che era un attore, principalmente un attore. Sulla sua grandezza come attore, nessuno (mi pare) ha mai osato dire niente. Bon (c'è sempre qualcosa di buono nel silenzio). Ma l'attore, nella cultura occidentale, è stato:
  • sanzionato dalla Chiesa (gli attori erano scomunicati, fino all'epoca napoleonica);
  • snobbato e anzi dileggiato dalla cultura 'alta';
  • osteggiato dai drammaturghi;
  • asservito dai registi;
  • snaturato dal cinema e dalla televisione;
  • ignorato dai sindacati;
  • assediato dai dilettanti;
  • ricattato dai critici;
  • usagettato dai politici;
  • umiliato nel linguaggio comune (es. la connotazione negativissima che hanno termini come 'giullare' e 'buffone', ma anche lo stesso 'attore' = bugiardo. In politica, poi, 'teatro' / 'teatrino'. Si potrebbero fare decine di altri esempi);
  •  oscurato dal destino fascinoso e patinato di pochi eccezionali colleghi, e fortunati.
Per quanto dotato di un talento sconfinato, Fo era pur sempre un attore: per definizione, un poco di buono.

Ma c'è anche il secondo motivo, a mio parere ancora più importante: Fo era un satirista. Un po' provocatoriamente, dirò che il suo essere comunista era conseguenza del suo essere satirista in un'Italia bigotta (fino a tutti gli anni Sessanta), conservatrice (sempre), paurosa della sua giovane libertà (ancora adesso), nevroticamente egocentrica (oggi) e volutamente ignorante (sempre e peggio). Non che il comunismo sia o fosse la soluzione giusta, ma un satirista deve essere estremo e anzi eversivo (a parole e con un fiore in mano), e non è affatto necessario che debba avere le idee chiare o giuste (ho la sensazione che Fo non avesse le idee chiare: per me, era più anarchico che comunista). Prima la satira, poi, nel caso, le idee. Prima il palcoscenico, poi le cose da recitare. Questo significa essere attori e satiristi.

La satira in Italia non l'ha mai passata liscia. Per forza. Un paese dove una chiesa o un partito (comunista) sono rifugi indispensabili per il 90% della popolazione. In un paese del genere, la satira è pressoché sempre una bestemmia, e mette una mina sotto le poche certezze mandate a memoria. Padre, posso ridere quando Fo prende in giro Bonifacio VIII? Compagno, posso ridere quando Fo prende in giro il primo ministro? Lo sberleffo colpisce, prima o poi, chiunque si trovi con la patta aperta. Nessuno si salva dalla satira. La satira denuda la verità, al netto della propaganda. La satira non guarda in faccia a nessuno. Si salva solo chi è sufficientemente libero da ridere persino di se stesso o chi si limita a dire: non mi piace, non mi fa ridere.

La nostra refrattarietà alla satira si è palesata, grazie alle tecnologie dell'io, in occasione della strage della redazione di Charlie Hebdo (ne ho scritto colà) e poi ancora quando i superstiti hanno pubblicato la vignetta sul terremoto ad Amatrice. Esempi di opinioni fallaci sulla satira:
  • la satira è satira ma fino a un certo punto;
  • non si possono colpire le cose sacre;
  • non si possono dileggiare altri popoli e altri paesi;
  • non si può rovinare la reputazione del proprio paese;
  • un satirista dovrebbe capire qual è il limite da non superare;
  • oltre un certo segno, la satira è menzogna;
  • la trivialità non è satira e la satira non deve essere triviale.
In questo scenario di approssimazione culturale e di rigidità ideologica, è evidente che Fo dava fastidio a tutti. Quando ci saremo liberati da questi limiti, rimpiangeremo Dario Fo o, meglio, rimpiangeremo di non aver riso abbastanza delle sue battute quando era vivo. Per adesso, niente da fare: dobbiamo rassegnarci a leggere insulse argomentazioni di chi non riesce a limitarsi a dire "non mi piace", "non mi fa ridere".

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