Eric Hobsbawn ha definito il Novecento con un'espressione
che ha avuto molta fortuna: "il secolo breve". Secondo lo storico
britannico, le date che racchiuderebbero il senso del XX secolo, distinguendolo
dai precedenti e anticipando quelli futuri, sarebbero il 1914 (Prima guerra
mondiale) e 1991 (disfacimento dell’Unione Sovietica). Al di là delle ragioni
di ordine storico e ideologico, questi limiti temporali si prestano bene a una
riflessione su Carlo Bertolazzi, nato a Rivolta d'Adda il 3 novembre 1870 e
morto a Milano il 2 giugno 1916, che il Comune di Rivolta d'Adda ha celebrato l'ultima
volta il 29 e 30 settembre 1990 (vent'anni dopo le celebrazioni per il
centenario della nascita). Su iniziativa dell'allora Sindaco Angelo Pasqualini
e dell'allora Assessore alla Cultura Giuseppe Strepparola, il Comune di Rivolta
promosse un libro, una conferenza e tre spettacoli della Compagnia Stabile
Dialettale della Famiglia Meneghina diretta da Carletto Colombo (Strozzin!, Lorenzo e il suo avvocato, La
prima sira).
Il Comune affidò la realizzazione del libro a me, fresco
laureato in Lettere con una tesi sull'opera in dialetto di Carlo Bertolazzi. Proposi
di raccogliere i suoi scritti teatrali, dispersi in varie testate. Ne vennero
fuori le Cronache drammatiche e
interventi critici, che Guido Bezzola, relatore con Paolo Bosisio della mia
tesi, volle onorare con una prefazione. Non solo: pronunciò anche un raffinato
intervento alla conferenza di presentazione del libro, alla quale parteciparono
anche Eugenio Calvi, che tanto ha dato alla cultura di Rivolta; Claudio
Beretta, storico della cultura e del dialetto milanesi; Sergio Torresani,
critico teatrale; e Carletto Colombo, autore di tante regie bertolazziane.
Rivolta torna anche oggi a Carlo Bertolazzi, per il
centenario della morte, con una lettura scenica della Gibigianna di Francesca Mazza, nata e cresciuta nella casa che fu
dello scrittore, una serie di iniziative nelle scuole e la mostra Destin baloss!, che la Banca dell’Adda e
del Cremasco ha voluto immortalare in questo catalogo.
Giuseppe Strepparola si è ricordato di me e mi ha invitato a
collaborare con lui, Elisabetta Nava (Assessora alla Cultura), Roberto Stucchi
(Responsabile Area Socio Culturale), Clara Vismara (Presidente dell'Università
del Ben-Essere) e Cesare Sottocorno, insegnante.
Nel corso del lavoro, non ho potuto fare a meno di pensare
che i cento anni che ci separano dalla morte di Bertolazzi sono stati, parafrasando
Hobsbawn, parecchio lunghi. In un solo secolo il mondo è cambiato più
velocemente e profondamente che in tutti precedenti, e se Carlo Porta (morto
nel 1821) si sarebbe magari ritrovato nella Milano di Bertolazzi, Bertolazzi
non si ritroverebbe certo in quella di oggi, e non dico per via della copertura
del Naviglio (1929-1930) e delle trasformazioni successive fino alla Città
metropolitana di oggi. E non vi morirebbe di broncoalveolite (o broncopolmonite
che dir si voglia), che fu la causa ultima della morte, ma non la malattia che
lo aveva colpito una quindicina di anni prima e della quale non abbiamo notizie
certe.
Per avvicinarci al nostro argomento, la digitalizzazione di
libri, locandine e manoscritti, era di là da venire anche nel 1990 (allora si
facevano i microfilm, di cui mi servii per le Cronache drammatiche), per non dire del trasferimento digitale dei
dati, che ci ha consentito di ottenere rapidamente e in tutta sicurezza gran
parte del materiale della mostra che, in assenza di queste tecnologie, sarebbe
stata molto più povera. Ciò nonostante, non siamo riusciti a ottenere alcuni
pezzi importanti, come la Gibigianna,
che le non poche biblioteche a cui ci siamo rivolti conservano sì, ma in
condizioni che non ne consentono il trasporto e nemmeno la digitalizzazione.
La mostra è articolata in tre sezioni: testimonianze
biografiche (es. certificati anagrafici, tesi di laurea, fotografie);
documentazione dell'attività teatrale (copioni, locandine, lettere); immagini
degli spettacoli moderni, cioè il video della Lulù di Andrée Ruth Shammah (Teatro Franco Parenti, 2010) e i
bozzetti e le foto di scena delle tre edizioni del Nost Milan di Giorgio Strehler (Piccolo Teatro 1955, 1960, 1979).
Abbiamo ordinato le foto scena per scena,
augurandoci di aver ottenuto il risultato di far rivivere la sublime
poesia di Giorgio Strehler, che seppe far risuonare le corde profonde della
scrittura di Carlo Bertolazzi.
Il resto del materiale proviene per circa la metà da
istituzioni: il Comune e la Parrocchia di Rivolta d'Adda, la SIAE, l'Università
di Pavia, la Famiglia Meneghina, il Comune di Milano, l'Archivio Notarile
Distrettuale di Milano. L'altra metà proviene, salvo qualche pezzo del mio
archivio, da Riccardo Mainardi, che custodisce l’archivio bertolazziano che il
padre, il poeta dialettale Cesare, ereditò da Elisa Grilli, la vedova di Carlo
Bertolazzi.
Le lettere ci mostrano un Bertolazzi ansioso e desideroso di
confidenza con il suo interlocutore, anche quando la materia è tutta professionale.
Al fondo, era un uomo leale al limite dell'autolesionismo, e dunque
ingenuamente incurante del rischio di rivelarsi senza maschere, senza
retropensieri, senza strategie occulte. C'è molto della sua semplicità d'animo
nei suoi personaggi, come vedremo poi.
Non voglio nascondere che il copione autografo abbia per me
un fascino particolare. Sembra di sedere accanto all'autore nel momento in cui
compone, lo si vede titubare, cancellare, riscrivere, oppure filare via di
conserva, sotto la spinta di un'ispirazione sicura. Bertolazzi è di quelli che
va a momenti. Certe scene, al primo getto; altre, frutto di rielaborazione.
Quasi sempre, provvede anche al disegno della scena, secondo un approccio
teatrologico, di cui discutiamo più avanti.
L'intenzione della mostra è principalemente quella di
accompagnare il pubblico nel mondo di Carlo Bertolazzi, soprattutto in quello
intimo, nella convinzione che il dato biografico dica sempre parecchio della
produzione artistica, pur non esaurendone i significati, anzi. Abbiamo voluto,
così, presentare anche alcuni insospettati acquerelli e disegni, il cui decoroso
livello amatoriale non ne giustificherebbe l'esposizione: ma sono coerenti con
l'abbondanza della documentazione privata, che offre anche, attraverso
Bertolazzi, una vista di come certe cose che si fanno anche oggi (per esempio
la tesi di laurea o i certificati anagrafici) si facevano cento e più anni fa.
Cento anni, Hobsbawm a parte, sono pur sempre cento anni e
al trascorrere del tempo resiste solo l'ingegno. Bertolazzi ne aveva. Viene
dunque da domandarsi perché abbia faticato ai tempi suoi a entrare nei
cartelloni teatrali e fatichi moltissimo ai nostri.
Una prima risposta sta nelle caratteristiche della sua
produzione drammaturgica, che possiamo dividere in tre stagioni.
La prima stagione è contrassegnata da commedie in dialetto di
ambientazione popolare, dai Benis de spos
del 1891 a El nost Milan: la povera gent del
1893 (mi riferisco sempre alle date della prima rappresentazione, non a quelle
della pubblicazione). Sulla linea di Porta e, in un certo senso anche di
Manzoni, Bertolazzi dà voce al popolo minuto, i lôcch, i barabba, afflitti
dalla povertà, dall'incertezza del lavoro (la "fabbrica
dell'appetito", come dice il Peppon), sospinti dalla speranza di un
avvenire migliore del presente, e sorretti dall'amore e dal buon umore, che
rende la scrittura dei dialoghi molto espressiva e spesso anche divertente.
L'ambientazione popolare è a tutto tondo nella Povera gent, dove i tre personaggi
(Peppon, Nina, Carloeu) compaiono solo al termine degli atti, emergendo come
casi particolari dalla folla che anima a lungo la scena.
Per il pubblico popolare di allora, quei drammi sono una
specie di epopea; per il pubblico borghese, una specie di critica della società
moderna. Ma per Bertolazzi sono una critica sentimentale, etica, cioè ispirata
alla pietà e a un senso comune di equità, non a un'ideologia o a un progetto
sociale e politico. Per averne un'idea, basta leggere la risposta di Bertolazzi
a un'inchiesta sul socialismo del 1894:
L'atteggiamento che
prendo [sul socialismo] è dei più simpatici e ciò è naturale dal momento che
divento socialista senza volerlo. Il socialismo per me è una nuova fede ch'io
sento istintivamente, che mi seduce perché mi conforta e mi dà quelle soddisfazioni
che ci procurano solamente gli ideali puri e sublimi. Ammessa l'applicazione
pratica del socialismo più che un aspetto economico perfettamente equilibrato
sono convinto della formazione di ua razza psicologicamente superiore il che mi
basta per inneggiare alle nuove idee.
Nemmeno con la direzione, tra l'agosto e il novembre del
1896, del settimanale liberale, radicale e anticlericale
"L'attualità", Bertolazzi manifesta una collocazione politica matura.
Mantiene l'impostazione dei numeri precedenti, pubblicati sotto la direzione di
Carlo Aliprandi (editore di molte opere bertolazziane), si limita a scrivere
pochi articoli di argomento teatrale e abbandona la direzione quando Felice
Cavallotti alza il livello della polemica politica attaccando Giosuè Carducci,
'reo' di essersi allineato acriticamente ai festeggiamenti per le nozze di
Vittorio Emanuele III con Elena Petrovich Principessa del Montenegro, e di non
aver voluto vedere il ridimensionamento dell'Italia nella politica
internazionale a cui le nozze sembravano preludere.
La povera gent
gira l'Italia con notevole successo. Ma il dialetto meneghino è ostico e il
tema impegnativo per il pubblico borghese che acclama Verga, Giacosa, Ibsen.
"No audience, no theater", direbbe George Clooney, e Bertolazzi è sensibile,
come è ovvio che sia, al successo. Ma quella vena e quei temi si stanno
comunque esaurendo: l'ultimo tremendo dialogo tra la Nina e il padre Peppon nè
è un segno chiaro (cito a partire dalla replica di Nina al padre che le
confessa di avere ucciso il Carloeu):
Nina (a mezza voce,
crollando la testa): No...
Peppon (straziante,
sempre a bassa voce): L'hoo faa per ti; te see che te vuj ben compagn d'on
matt!
Nina (nervosamente
come nauseata e vinta da tante disgrazie, quasi imprecando, con ira sorda):
Destin baloss!
Peppon: Nina, ma te me
diset nient? (Scuotendola, agitato) Guardom in di oeucc, te gh'hee nanca ona
parola per tò pader?! (Nina accenna di no col capo. El Peppon la fissa; pausa,
poi più forte) Te ghe vorevet ben, forsi? te vorevet sta con lù?!
Nina (a scatti,
nervosa, agitatissima) [...] Puttosto che andà innanz inscì, me saria trada in
del tombon de San Marc!
Peppon (con ansia): E
allora?
Nina: Allora... la
manera de liberamen, mi l'avevi già trovada, sigura (Pausa; il padre la fissa
sempre con maggiore intensità. Con un filo di voce) Me sont decisa jer...
Peppon (incalzante): A
fà cosa?
Nina: Jer...
(pianissimo) Sont andada dalla Martina.
Peppon (spaventato):
Ti?!
Nina (senza
guardarlo): Sì, propri mi! Sont andada de lee, propri de lee!...
Pausa lunga,
angosciosa.
Peppon (l'emozione
l'assale; si avvicina alla figlia; in principio balbetta, non trova le parole,
poi le parla piano col pianto nella voce come di uomo offeso in tutto ciò che
ha di più sacro; nel suo orgoglio di vero popolano onesto): Nina! Sentom ben,
guarda, quisti hin ultim paroll del tò pover papà, che adess el và in man della
giustizia, ma credom, Nina, dam a trà, per caritaa! (Forte) Stà strasciada,
patiss la famm, ma va no cont lor, va no coi sciori, per l'amor di Dio!
Nina: No, sont decisa,
papà, sont propri decisa! [...] Voo ancami a fà la sciora, a mangià i bon
boccon, a bev el vin e a dormì quattada!
Infatti, la ritroviamo cocotte
nel Nost Milan: i sciori (1895),
ambientato nel centro lussuoso di Milano: dal nuovissimo e trendy Anglo-American
Bar, realmente esistito fino al 1943 nello stabile dell'Hotel de la Ville dove
la via Passarella (oggi Galleria Passarella) confluiva in Corsia dei Servi (oggi
Corso Vittorio Emanuele), ai palazzi aristocratici di via Borgonuovo. È una
mantenuta, veste elegante, si fa chiamare Belle Helène da uno stuolo di
corteggiatori (artistocratici e qualche borghese: un pittore, un giornalista), rifiuta
l'amore vero e ingenuo del Marchese Riccardo di Rivalta, e accetta il suo
destin baloss di solitudine e di infelicità.
Con i Sciori siamo
già nella seconda fase: opere in dialetto di ambientazione borghese. Questa
fase era cominciata l'anno prima, il 1894, con due ottimi drammi: Strozzin! (ambientato in casa di un
usuraio) e La ruina (rise and fall di un pittore). Qui, il
mondo popolare è ormai sullo sfondo, quasi senza rimpianti.
Nel 1898, Bertolazzi ha però una specie di ripensamento,
tenta di rielaborare il mito. Bianca, protagonista della Gibigianna, una popolana più superstiziosa che bigotta, vive
poveramente con Enrico, lo scrivano di un avvocato, che la maltratta, come il
Carloeu maltrattava la Nina. Lo abbandona e diviene cocotte. Ma Enrico la cerca, la trova, tenta di costringerla a
tornare da lui, lei si rifiuta, lui l'accoltella. Terrorizzata di morire
maledetta da lui, lo perdona; pentita del proprio degrado morale, scende dal
mondo dorato e ricomincia con Enrico la vita incerta di prima. Finale a sorpresa,
melodrammatico, sentimentale, direi anche verosimile.
Con il rientro di Bianca in una casa di ringhiera,
Bertolazzi esaurisce definitivamente le soluzioni drammaturgiche sui temi
popolari: qualcosa impedisce alla sua fantasia di immaginare per i suoi
personaggi scenari diversi da quelli nativi. Questo ‘qualcosa’ potrebbe essere
la combinazione della sua condizione borghese con la tradizione culturale
milanese, improntata a un’etica inclusiva, e la cultura del tempo, ancora
fortemente condizionata dal determinismo. Per cui Nina e Bianca sono più vicine
a Renzo e Lucia che non a Berardo Viola, il protagonista di Fontamara, pur distando circa 70 anni dai
personaggi manzoniani (la prima edizione dei Promessi sposi è del 1827) e meno di 40 da quelli di Silone (Fontamara
è del 1933, ma scritto nel 1930). Anche da questo punto di vista, Bertolazzi è
fuori dal secolo breve.
La transizione si chiude, appunto, con la Gibigianna e con la relativa prefazione
di Gerolamo Rovetta, che incita Bertolazzi a contribuire al repertorio del
teatro nazionale in lingua.
La prima commedia della terza e ultima stagione è l'Amico di tutti, che Bertolazzi, ancora
troppo noto come autore dialettale, è costretto a tradurre prima in dialetto
veneto (L'amigo de tuti del 1899) e
poi in milanese, pur di farlo rappresentare. Traduzioni in dialetto ne fa ancora
negli anni successivi (es. L'egoista
del 1901, La zitella / Ona tosa al palo
del 1907), sempre per lo stesso motivo e sempre con minore successo, perché il
dialetto è posticcio, non si adatta bene alle turbe psico-familiari dei più o
meno piccoli borghesi in scena. E non funziona meglio nemmeno la traduzione in
italiano delle sue opere dialettali (Strozzino!
e Povera gent pubblicate nel 1905, Bianca
cioè Gibigianna pubblicata nel 1906, La rovina pubblicata nel 1907).
Traduzioni a parte, Bertolazzi produce circa una commedia
nuova all’anno fino al 1910, nonostante si sia ammalato gravemente all’inizio
del secolo. Quale malattia, come dicevo, non si sa. Nella stampa dell’epoca,
c’è una esibita reticenza al riguardo, accanto alla viva preoccupazione per la sua
vita. Di fatto, si trasferisce a Pallanza (torna cittadino milanese solo nel
marzo del 1916), si cura, si sposa nel 1905 a Elisa Grilli attrice della
Compagnia Sbodio-Carnaghi, la preferita del Bertolazzi della prima e seconda
stagione. Riemerge pelle e ossa dalla fase acuta, cammina con il bastone e
continua a scrivere.
Le commedie borghesi della terza stagione si allontanano
definitivamente dal mondo popolare, sono ambientate in appartamenti grandi e
case di campagne, che esibiscono un certo benessere e talvolta persino
ricchezza, ma riprendono un tema delle opere della seconda stagione, un tema
destinato a divenire dominante: la perdita brutale dell’innocenza (tre le
eccezioni: Amigo de tuti, Lorenzo e il suo avvocato).
Cominciamo con qualche dato. L’innocenza, i personaggi
bertolazziani la perdono sui vent’anni. Sono generalmente donne, più raramente
uomini (Lulù, Ombre del cuore del 1908). A causare direttamente la perdita
brutale dell’innocenza possono essere uno o entrambi i genitori (Strozzin!, Egoista, Il matrimonio della
Lena, Ombre del cuore), oppure l’amato (Gibigianna,
Lulù). Non esistono altri agenti della brutalità.
Ma vegnimo a dir el merito: la perdita dell’innocenza
consiste nel crollo dell’ideale della famiglia fondata sull’amore (non sarà
inutile ricordare che in milanese l’amore si esprime con ‘vorè ben’ e che
Bertolazzi pensava in dialetto anche quando scriveva in italiano, come del
resto ammise lo stesso Manzoni).
L'ideale della famiglia fondata sull'amore si fonda a sua
volta e innanzitutto sul vuoto d'amore determinato dalla prematura morte della
madre (Nost Milan, Strozzin!, Gibigianna, Egoista, Lorenzo e il suo avvocato). Questo
tratto, che ha un'evidente origine autobiografica (Bertolazzi perse la madre
all'età di un anno), è un elemento costitutivo della personalità dei
protagonisti e dunque del plot, perché i protagonisti aspirano in futuro a
ottenere l'amore non ricevuto e non dato in passato.
L'ideale della famiglia fondata sull’amore è poi anche il
risultato opposto a quello desiderato dall'educazione ricevuta in famiglia che:
·
rappresenta ai figli l'amore tra i genitori come
un patto sottoscritto e rispettato sempre felicemente per la gestione ottimale
di una micro-società fondata sull'interesse economico e sulla rispettabilità
sociale;
·
intende l'amore filiale come devozione eterna
(soprattutto nei confronti del padre, indiscusso e indiscutibile capo di
famiglia) che non prevede l'autonomia dei figli nemmeno quando raggiungono
l'età adulta (da piccole, le figlie vengono talvolta messe in collegio).
In tali famiglie, si possono concedere ai figli molte o
tutte le cose che hanno un prezzo accessibile, ma non certo di andare dove li
porterebbe il cuore. Chiarissime alcune battute dell'Amigo de tuti:
Palameo [parlando del
matrimonio della figlia]: Se el pretendente el xe el sior Gustavo, alora xe un
altro per de maneghe.... anzi, dirò adiritura ch'el toso nol me dispiase...
Alessandro: E a so
fia?
Palameo: Mia fia?
Cossa gh'entra mia fia?
Alessandro (dolce): Oh
Dio! se trataria del maridarla ela...
Palameo: E dunque? chi
son mi? contento mi, no basta?
Questo modello induce i figli a idealizzare l'amato, ad
attribuirgli valori 'puri', e pertanto a vagheggiare un modello familiare
diverso.
La combinazione del rifiuto del modello familiare di
provenienza con l'ambizione a realizzare il modello 'puro' con l'amato è il
meccanismo che scatena il dramma bertolazziano della perdita brutale
dell'innocenza. Infatti, entrambi i modelli, sottoposti al test di verità, cioè
alla resistenza ai fatti della vita, rivelano i segreti inconfessabili, fino a
quel momento coperti dalla menzogna, di almeno uno dei personaggi in gioco: traffici
illeciti del padre (l'usura di Strozzin!
e di Ombre del cuore), infedeltà di
un genitore (Strozzin! e Ombre del cuore in cui il figlio è un
bastardo e il padre abbandona la famiglia per una cocotte), raggiro di un fratello (Sciori, Egoista), relazioni
scandalose (aborto: Sciori),
infedeltà dell'amato, certa (Lulù) o
sospettata (Gibigianna).
L'agnizione distrugge non solo le relazioni ma, e questo è
il punto bertolazziano, schianta la personalità stessa dei protagonisti, perché,
rivelando l'insussistenza dei loro valori, prospetta un avvenire paurosamente
vuoto di un quale che sia significato. Rimedi a tale disperazione sono il
suicidio (Maria di Strozzin!),
l'omicidio dell'amata (Mario di Lulù)
o l’accettazione del destin baloss, cioè di un destino di infelicità senza
desideri, come direbbe Peter Handke: è il caso Elena (Egoista), Lena (Matrimonio
della Lena), Maurizio (Ombre del
cuore) e di Riccardo (Sciori),
che non è un ventenne, ma è ingenuo come se lo fosse. Qualche esemplificazione.
Maria (Strozzin!)
si uccide non perché Enrico l’abbandona, ma perché a) ha scoperto che suo padre
è uno strozzino; b) suo padre è lo strozzino che ha condotto il fratello di Enrico
al suicidio; c) Enrico le ha mentito sul perché l'abbandoni.
Bianca (Gibigianna)
diviene una cocotte perché scopre che
la sua famiglia di fatto (diremmo così, oggi) è fondata sulla povertà e sulle
botte che il suo Enrico le dà per gelosia. D'altra parte, Enrico scopre che
Bianca è sistematicamente bugiarda. Sicché povertà-bugia-gelosia-botte generano
un loop di infelicità senza uscita
che, alla fine (dopo la coltellata e la prostituzione), si rivela la soluzione
preferibile.
Lena (Matrimonio della
Lena) non si compromette con il parrucchiere per sano erotismo (a quei
tempi, inconcepibile all'interno della morale convenzionale), ma per
rivendicare il suo diritto alla felicità in faccia ai genitori, che l’hanno rinnegata,
come una Cenerentola, proprio per la sua vocazione all’indipendenza, alla
felicità indifferente alle convenzioni sociali.
Maurizio (Ombre del
cuore) perde l’innocenza quando il padre, l’implacabile strozzino Giovanni,
lascia la famiglia dopo aver scoperto che l’amatissimo figlio non è figlio suo.
Qui tutto va in frantumi: Giovanni perde la moglie fedifraga e il figlio
bastardo, la moglie perde un marito a cui vuol tutto sommato bene, il figlio
perde l’amore del padre e resta con la madre colpevole, alla quale, anche se la
commedia finisce prima, non potrà fare a meno di imputare le sue
responsabilità.
Il teatro borghese di Bertolazzi pone dunque al centro la
famiglia come fattore di infelicità. Tale critica al cardine della società
cattolico-borghese è senza appello e non può che lasciare l'amaro in bocca a
buona parte del pubblico, anche moderno. Sarà anche per questa ragione che
Delio Tessa rielaborò la mai rappresentata Trattoria
"Al vero conforto" e ne fece un radiodramma che la Radio della
Svizzera Italiana trasmise il 3 gennaio 1940.
Bisogna però aggiungere una considerazione: la famiglia bertolazziana
è un mondo chiuso, piccolo. In queste commedie:
·
i personaggi rappresentano sempre gli stessi
pattern psicologici (non esistono pazzi, assassini ecc.);
·
i personaggi non hanno veri amici (si tratta
piuttosto di colleghi o coinquilini);
·
non vi è traccia di argomenti storici e sociali
(si pensi, senza andar lontano, alla Folla
di Paolo Valera, del 1901).
Anche Dio è assente. Compare talvolta una meschina
religiosità: quella di Bianca è subordinata irrimediabilmente alla
superstizione; quella di Franco Marteno (Egoista)
è frutto tardivo del terrore della morte e si traduce in un volgare mercato dei
suoi beni a vantaggio del viscido prete e a svantaggio della figlia; quella de Il diavolo e l'acqua santa si risolve alla
don Camillo e Peppone.
Senza i valori che tali argomenti implicano, ai drammi
bertolazziani sfugge irrimediabilmente la profondità che li avrebbe resi
interpreti completi della modernità: il pubblico se ne avvede, e apprezza
sempre meno la limitatezza e la ripetitività del teatro bertolazziano. Il 27
dicembre 1908, Bertolazzi si sfoga con Adolfo Re Riccardi, il suo agente:
Posso riassumere la
mia situazione con una sola parola molto eloquente: un disastro! [...] Così,
assolutamente, io non vado più avanti! [...] Quale sarà il Quadro finanziario
di quest'ultimo trimestre? Misericordia! Una miseria! Non vi sono che due
recite di Principessina, sei o sette di Ombre del cuore, tre o quattro di
Giorni di festa. Conclusione: un anno terribile.
Il 25 ottobre 1909 scrive a Renato Simoni ('firma' del
Corriere della Sera, suo testimone di nozze):
Dopo il Focolare, un
lavoro che ho scritto in questi mesi d'estate, io chiuderò definitivamente bottega. Ho concorso al posto di notaio a
Carate Brianza - sono riuscito primo
e attendo di giorno in giorno la nomina ufficiale del ministero.
Bertolazzi rogita il suo primo atto il 27 febbraio 1910 e,
salve alcune occasionali rappresentazioni e pubblicazioni, abbandona il teatro,
affidandolo alla posterità. La quale posterità, come dicevamo, non lo ha del
tutto dimenticato, ma nemmeno lo ha eletto tra gli evergreen. Né poteva essere diversamente: il teatro bertolazziano,
con i limiti di cui abbiamo parlato, difetta di una piena universalità.
Siamo quindi in grado di dare una prima risposta al perché
Bertolazzi non appaia quasi più nei cartelloni teatrali:
·
il suo teatro in dialetto è vittima del declino
dei dialetti: si salvano i grandissimi universali di Goldoni e De Filippo. Il
resto del repertorio è di interesse residuale, locale, dilettantistico;
·
il suo teatro borghese è lontano dalla
sensibilità del pubblico moderno, e dunque poco sintonico con le politiche
culturali dei teatri di oggi.
Ai quali teatri preoccupa anche il marchio di fabbrica, dal
punto di vista tecnico, del teatro di Bertolazzi: la scena d'insieme (Povera gent, I sciori, Gibigianna e,
anche se meno impegnative, Lulù e Lena). Le scene d'insieme presentano
due problemi che, combinati, contribuiscono a darci una seconda risposta sulla
scarsa presenza di Bertolazzi nei teatri di oggi:
·
sono costose (scene complesse, gran numero di
attori e comparse);
·
offrono ristretti margini di manovra creativa al
regista.
Consideriamo solo i casi estremi dei due capolavori El nost Milan (primi atti) e la Gibigianna (secondo atto), che esigono
una scena molto articolata dove i personaggi (54 nella Povera gent, 47 nella Gibigianna,
25 nei Sciori, più parecchie
comparse) devono rappresentare in alternanza tra loro le scene e le
controscene, e dove l'effetto si ottiene con una ottimale gestione dei tempi.
Luogo, battuta (tono, azioni e tempi), luogo della
controscena, azioni e tempi della controscena sono rigidamente prestabiliti
nelle didascalie, delle cui potenzialità Bertolazzi è certamente tra i massimi
interpreti. Sul perché, vale la pena dire due parole.
Oggi, siamo abituati ad attribuire al regista la
"tremenda responsabilità" (come la chiamò Strehler) dello stile dello
spettacolo. Ma il regista, che è la principale innovazione del teatro
novecentesco, appare (in Germania e Francia prima che in Italia) immediatamente
dopo la generazione di Bertolazzi (D'Annunzio, Pirandello, Bragaglia), che anche
da questo punto di vista è fuori dal secolo breve.
Fino al tempo di Bertolazzi, la responsabilità
dell'allestimento era del capocomico, il cui obiettivo principale era ottenere
il successo personale suo e della prima attrice, perché questo successo significava
né più né meno la sopravvivenza della compagnia. I drammatughi che hanno
subordinato le esigenze dei teatranti al valore letterario della loro opera
hanno più facilmente subito delusioni e danni, nel teatro d'attore. Eccezioni
notevolissime sono stati Shakespeare e Goldoni, che seppero gestire (almeno
fino a un certo punto) gli attori acquisendo un ruolo particolare nella
compagnia (il primo come attore, il secondo come autore fisso e stipendiato).
Bertolazzi si affida alle didascalie e partecipa anche alle
prove, con ottimi risultati. Non ci risultano, infatti, particolari rimostranze
nei confronti dei suoi interpreti, tra i quali dobbiamo ricordare, nella prima
e seconda stagione, Gaetano Sbodio e Davide Carnaghi (formatisi nella compagnia
di Edoardo Ferravilla), e, nella terza stagione, alcuni tra i principali attori
del teatro nazionale, come Ferruccio Benini (Amigo de tuti, Egoista, La
zitella), Virgilio Talli (La casa del
sonno, La zitella), Ruggero Ruggeri (La
casa del sonno), Teresa Mariani (Lulù,
Lorenzo e il suo avvocato), Ermete Novelli (Ombre del cuore).
Bertolazzi, dunque, crede molto nelle didascalie, il cui
rispetto è necessario nelle scene d'insieme. Quando non sono rispettate, le
cose vanno male. Ecco cosa scrive nel 1901 a Decio Guicciardi, drammaturgo (La torta, 1901) e responsabile di una
compagnia milanese, a proposito del secondo atto di Gibigianna:
Si nota una generale
trascuratezza, una smania di strafare tantoché di un atto d'assieme ne risulta
alla fine un indigesto minestrone senza sale. Il secondo atto della Gibigianna se lo ricordino, gli egregi artisti della
Compagnia Milanese, è un atto pericoloso. Per quel che riguarda l'esecuzione è
un abito cucito a macchina; se si rompe un filo, l'abito si disfà di colpo. E
ieri sera di fili se ne ruppero parecchi [...]. Raccomandi che tutti devono stare al testo. Per quanto sia preziosa la collaborazione
degli artisti io, per le mie idee, sono costretto a rifiutarla.
Il teatro bertolazziano è dunque certamente concepito per la
rappresentazione, ma per quella
rappresentazione, sulla quale Bertolazzi fa aggio con didascalie che, nella loro
precisione, anticipano le note di regia del teatro di oggi. Sicché, le scene
d'insieme offrivano e offrono al regista ben pochi spazi per dare allo spettacolo
uno stile suo. La povera gent e la Gibigianna si possono fare in un modo
solo, un po' come Aspettando Godot,
che l'alberello ci deve essere e gli attori non possono fare altro che girarci
intorno. Tanto è vero che Strehler riuscì solo a fondere il secondo atto
(Estrazione del lotto) con il terzo (Cucine economiche) ma, quanto al resto,
dovette assecondare Bertolazzi. Se quello spettacolo è rimasto nella storia del
teatro è perché Strehler, regista dotato oltre che di un talento sconfinato
anche di tutto lo strumentario culturale che i capocomici non avevano, sfruttò
al massimo luci, scene e costumi, gesti e intonazione degli attori ecc., e
perché La povera gent si inseriva
perfettamente nella sua ideologia e nel 'sentimento del tempo' (vivo nel 1955 e
nel 1960, un po' scemato nel 1979). Ma oggi, fare La povera gent diversamente da Strehler (e meglio di lui) è
un'impresa che scoraggia un regista che voglia aggiungere qualcosa di nuovo
alla storia del teatro.
A conti fatti, il teatro di Bertolazzi è un teatro difficile
per il pubblico e per le compagnie, perché non lascia scampo: il pubblico è
indotto allo straniamento invece che all'immedesimazione (questa difficoltà
viene sottolineata anche nelle recensioni del tempo), e le compagnie sono
costrette ad accettare precise condizioni tecniche ed economiche.
È un teatro difficile anche da leggere, perché al lettore è
richiesta la massima concentrazione, in particolare quando l'azione procede
lentamente, come nelle scene d'insieme, nelle quali Bertolazzi sembra voler
suggerire che la scarsità dei fatti consenta e anzi richieda uno sguardo
panoramico. Ma in realtà, Bertolazzi, come i grandi giallisti, sa nascondere
l'informazione cardinale, svilupparla poco alla volta fino a quando appare in
tutta la sua evidenza come se fosse stata detta per la prima volta.
I Sciori è il caso
emblematico. L'informazione cardinale, la premessa del dramma, riguarda
l'aborto della Contessina Ormini (relazione con un servitore), che deve essere
tenuto nascosto al Marchese Riccardo di Rivalta (ingenuo reduce delle
esplorazioni africane) che il fratello Don Ceser, per salvare le sostanze della
famiglia, vuole fargli sposare. Il segreto lo conoscono tutti, e finirà
pertanto per conoscerlo anche lui.
Bertolazzi introduce sottotraccia questa informazione nel
primo atto, poi la sviluppa nel secondo e la esplicita solo nel terzo. Il primo
atto è ambientato alla domenica mattina nell'Anglo-American Bar dove gli uomini
consumano l'aperitivo in piedi (secondo la moda americana) mentre le donne
assistono alla messa. I dialoghi si sovrappongono, si interrompono, sfumano nel
cicaleccio generale. L'informazione cardinale appare in quattro occasioni,
nelle quali il brutale cinismo dei personaggi contribuisce a ridurne l’evidenza.
Prima occasione (mentre le donne escono di chiesa):
Baron (guardando
fuori): Ch'el guarda on poo la contessa Ormini colla tosa!
Taccani: Per bacco!
l'è la prima volta che la se fa vedè in publich, la sura Contessina (Ride
ironico).
Baron: Oh Dio! cose
vecchie - cose passate...
Mainetti (a Taccani):
A ditt la veritaa avaria voruu trovamm mi in di pagn del dottor Marsieri!
Taccani: Ah sì! On
colloquio de dò ôr, al tu per tu... e poeu minga domà de parer avariss cambiaa,
ma anca el nomm se fuss staa possibil
Mainetti: Adess hin
tutti de casa Rivalta... te set accort?
Taccani: Difatti hin
insemma all'avvocat Palmieri...
Mainetti: Quel che ha
ciappaa el post del dottor...
Taccani: Precisament
Seconda occasione (parlando del Marchese Riccardo):
Mainetti: Le signore
ghe moeuren adree, ma lu i e capiss no o el fa finta de no capij... fina la
contessina Ormini...
Taccani: Ah, quella
lì, lìè el fradell ch'el voeur faghela sposà...
Mainetti: Te set
inveci chi l'è che gh'ha fa colp?
Baron (subito con
interesse): Chi?
Mainetti: La Belle Helène!
Terza occasione:
Baron (a Ormini):
T'hee vist don Ceser?
Ormini: L'ho vist
adess ch'el vegneva foeura de San Carlo con so fradell e mia miee... (Altro
tono) A proposit, te set no la gran novitaa? hoo venduu la Baja".
Quarta occasione:
Baron: Domani... mi
progetti una gita a Coraa, nella mia villa (a Riccardo e Ceser) in onore del
noster car Riccardo... Ti Ormini... s'en parla nanca, ci farai compagnia con
toa miee e con toa tosa.
Ormini: Mi doman poss
minga... gh'hoo on fila de occupazion che me ten ligaa tutta la giornada!...
gh'hoo l'Esperance [un'altra cavalla] che la me s'è malada!
Baron (con premura
subito): Cosa la gh'ha? cosa la gh'ha?...
Ormini: Niente! On poo
de toss ciapada a San Sir.
Baron: Ah respiri!...
me s'era giamò stremì... ona bestia così intelligente
Nel secondo atto, l'informazione cardinale comincia a
prendere corpo:
Belle Helène
(discorrendo piano a Taccani): L'è vera del matrimoni della tosa dell'Ormini
col marches Riccardo?
Taccani: Inscì disen.
L'e el fradell Don Ceser che l'è sotta a combinà tuscoss.
Belle Helène: Ma el sa
lu del passaa della contessina?
Taccani: Oh certament!
Belle Helène (quasi
con dolore): Anca lu compagn di alter!
Taccani: Perchè? te
seret fada di illusion forsi?
L'informazione cardinale viene esplicitata nel terzo atto,
da parte dei servitori:
Coeugh (avvicinandosi
con interesse): E la tosa?... ghe disii nagotta?
Marco: No parlar de
ela per amor di Dio altrimenti se verzeranno le caterate del cielo.
Anselmo: Ona civettona
che n'ha faa de tutt i razz!
Andrea: L'ha faa la
fortuna del Peder!
Coeugh: Verissimo! El
Peder el gh'avuu la tosa e poeu i danee! (Ride con malizia)
Marco: Diesemila lire,
e tuto perchè el tasesse.
Luzia: E adess hin
adree a bolognaghela a quaichedun!
Tutti: (sempre con
vivo interesse): Ah sì?? (Si stringono ancora più dappresso formando gruppo).
Luzia (con gran
mistero): Nientemeno!... guardee che nanca l'aria de savell! me raccomandi!
Tutti: Ssst!
Luzia (pianissimo):
Hin adree a faghela sposà al Marches Rivalta, quel ch'è tornaa de l'Africa!
Tutti (increduli):
Oeuh dess! Ma che! L'è impossibil!
Coeugh: El marches l'è
minga inscì stupid! Te voeutt che le sappia minga?
Luzia: El sa nient ve
disi! Mi el soo dalla Cesira, cameriera della Contessa mader che me l'ha ditt
in tutta segretezza. Lu el sa nient! Chi sa la storia l'è el fradell, Don
Ceser, perchè quell el gh'è staa de mezz anca quand gh'è staa l'affari del
dottor, ve ricordii?
Coeugh: Ah già,
l'abort!
Anselmo: Bravo!
l'abort procuraa da la mader!...
Marco (pauroso): Pian
per carità.... Se i me sentisse!
Andrea: La Luzietta la
gh'ha reson. Anca sti git chi hin combinaa apposta per tirà visin i duu
giovincelli.
Luzia: Ma diavol!
Anselmo: L'è ciara
come el sô.
Coeugh: Che razzapaia
de gent!
Marco: Cosse de
l'altro mondo!
A questo punto, manca solo che la conosca Riccardo:
Baron: Nota che se
voress... figuret che el Mainetti el ven a sta gita perchè l'è innamoraa della
Contessina!
Riccardo: Innamoraa?
Baron (ridendo):
Innamoraa de quella lì! El bell l''è che on dì in tutta confidenza el m'ha
confessaa che lu el saria dispost a sposala.
Riccardo: Ma mi ghe
troeuvi nient de rid.
Baron: Ma
com'è....dopo quell che gh'è staa?!... Ah sent.... savell minga pazienza, ma
savendel, la me par on poo grossa.
Riccardo: Ma cosa?
Baron: Ma sì... ma la
storia del Peder... de quel servitor, de l'abort... a momenti ghe faseven el
process. Te se ricordet pù?
Riccardo (serio): De
la contessina Clelia?
Baron: Già! l'ann
passaa... Ah già che ti te seret via... forse te savarett nagotta.
Riccardo (impallidendo):
Difatti!
Baron: Ma sigura, on
scandol! La Contessina la gh'ha avuu relazion cont on servitor. Fina chi, pocch
mal... el brutt hin staa i conseguenz! On fioeu! Per fall sparì... l'abort. I
dottor s'hin miss de mezz, ma a momenti se mett de mezz anca l'autoritaa...
(Vedendo Riccardo sempre più agitato) Cosa te gh'et?
Riccardo: Nient, me
senti mal
Dicevo della difficoltà maggiore della lettura perché, messe
in scena, queste battute possono essere sottolineate con scelte registiche
appropriate (intonazione, gesti), che mettano lo spettatore sull'avviso. Ma la
pagina è - per dir così - piatta, o appare tale.
La scrittura di Bertolazzi è dunque parecchio raffinata: il
plot, non solo nei Sciori, si
realizza con un ritmo lento e con un intreccio dosatissimo degli argomenti, in
modo che il lettore-spettatore rimanga incerto su quale possa essere lo
scioglimento del dramma, fino all'inesorabile finale. Ma, se il destin baloss
dei personaggi bertolazziani riesce a coinvolgere fino a un certo punto noi moderni,
non così è per la tecnica compositiva, che resta mirabile.
Nell'insieme, Bertolazzi è un autore difficilmente evitabile
da chi voglia apprezzare una raffinata costruzione del dramma, massimamente
quando la numerosità dei personaggi ne rende di difficile comprensione la
trama. È altrettanto inevitabile quando si voglia riflettere su quanto profondamente
il secolo breve abbia agito sulla sensibilità delle persone, sui valori della
famiglia e sui requisiti d'ingresso all'età adulta. Se il teatro di Bertolazzi
appare a noi un po' datato, è anche perché, però, siamo forse un po' troppo
disincantati rispetto all'ingenua ma non falsa semplicità d'animo, invocata da
Bertolazzi quale valore non negoziabile. In tal senso, i miti bertolazziani
possono ancora operare da specchio, e dirci qualcosa che non troveremmo tanto
facilmente altrove. Non è poco, anzi mi pare più che sufficiente per farci
considerare Bertolazzi uno dei massimi drammaturghi del suo tempo, e uno dei
grandi solisti del nostro teatro.
Nota bibliografica
Ho pensato che nell’introduzione del catalogo di una mostra
le note a piè di pagina potessero infastidire il lettore più di quanto lo
infastidiscono nella lettura dei saggi. Non volendo, tuttavia, dar niente per
scontato, né far mancare al lettore l’opportunità di condurre in piena
autonomia tutti gli approfondimenti che crede, rendo conto qui in fondo dei
riferimenti bibliografici di cui mi sono servito o che ritengo utili.
Il secolo breve.
1914-1991: l’era dei grandi cataclismi di Eric Hobsbawm, che ispira
l’apertura e la chiusura della mia introduzione, è uscito nel 1994 (ora
Rizzoli, Milano, 2014).
Il volume di Carlo Bertolazzi, Cronache drammatiche e interventi critici, a mia cura, con
Avvertimento, Comune di Rivolta d’Adda, 1990 fu presentato il 28 settembre 1990
da diversi studiosi, che qui vorrei ricordare. Dell’opera di Guido Bezzola, che
si estende dalle origini della letteratura italiana (Compagni, Petrarca) ai
grandi lombardi (compresi i milanesi elettivi Foscolo, Stendhal e Tommaseo), è
ingrato fare una sintesi, ma, da suo allievo, mi è caro riconoscere l’influsso
particolare sulla mia formazione del commento ai Promessi sposi (Rizzoli, Milano, 1961) e della biografia di Carlo
Porta (Le charmant Carline, Il
Saggiatore, Milano, 1972). A Claudio Beretta siamo debitori, oltre che di
diversi studi milanesi (Carlo Porta, Poesie-Lettere,
Bompiani, Milano, 1988; Letteratura
dialettale milanese, Hoepli, Milano, 2003), anche di due contributi
eccentrici che vorrei segnalare agli specialisti, nella speranza che ne
approfondiscano gli importanti spunti: Toponomastica
in Valcamonica e Lombardia. Etimologie. Relazioni con il mondo antico,
Edizioni del Centro Camuno di Studi Preistorici, Capo di Ponte, 1997; e I nomi dei fiumi, dei monti, dei siti.
Strutture linguistiche preistoriche, Prefazioni di Emmanuel Anati e di L.
Luca Cavalli Sforza, Hoepli, Milano, 2003. A Sergio Torresani dobbiamo diversi
saggi di argomento teatrale e la pubblicazione di alcuni inediti bertolazziani:
le primissime commedie di Bertolazzi Mamma
Teresa e Ave Maria (entrambe in
"Ariel", n. 1, gen.-apr. 1986, rispettivamente alle pp. 105-132, e
133-149); e molte lettere ad Adolfo Re Riccardi, tra le quali anche quella qui
citata (Lettere di Carlo Bertolazzi a
Adolfo Re Riccardi, in "Otto/Novecento", anno XI, n. 5/6,
set.-dic. 1987, p. 126). Carletto Colombo ha scritto Storia del teatro dialettale milanese. Gli autori dal Seicento a oggi,
Provincia di Milano, 1981. Di Eugenio Calvi vorrei ricordare, oltre alla Storia di Rivolta d’Adda, realizzato
dalla Cassa Rurale ed Artigiana di Rivolta d'Adda nel 1988, un ottimo
intervento su Carlo Bertolazzi, pubblicato in “La voce di S. Alberto” del 21
dicembre 1969.
Per quanto riguarda il punto di vista politico di
Bertolazzi, la riflessione sul socialismo apparve in "Vita moderna",
apr.-mag. 1894, ma si può leggere più comodamente nel mio Ricerche biografico-teatrali su Carlo Bertolazzi, pp. 29-30. Sulla
direzione della rivista "Attualità", si veda il mio Carlo Bertolazzi direttore de
"L'Attualità", in Carlo
Bertolazzi e la scena, numero speciale di "Ariel", quadrimestrale
di drammaturgia dell'Istituto dfi Studi Pirandelliani e sull Teatro Italiano
Contemporaneo, anno XV, n. 2-3, mag.-dic. 2000, pp. 159-173.
Altre citazioni. Quelle del Nost Milan provengono da El
nost Milan e altre commedie, a c. di Folco Portinari, Einaudi, Torino,
1971. In particolare: dalla Povera gent,
“la fabbrica dell’appetito”, p. 23 e l’ultima scena pp. 63-65; dai Sciori, pp. 73-74, 75, 77, 79, 90,
107-108. Le battute dell’Amigo de tuti
si trovano a p. 59 dell'edizione Filippi Editore, Venezia, 1977. La lettera a
Renato Simoni si trova nel mio Ricerche
biografico-teatrali su Carlo Bertolazzi con "Appendice" di lettere
inedite e rare, in "Otto/Novecento", anno XIII, n. 3/4, mag.-ag.
1989, pp. 53-54, mentre quella a Decio Guicciardi è stata pubblicata da Emilio
Guicciardi, Nella tempesta del Novantotto:
"La gibigianna", in "La Martinella di Milano", fasc. I,
1980, p. 381.
Sulle singole opere: la Prefazione
di Gerolamo Rovetta si trova in Carlo Bertolazzi, La gibigianna, Baldini e Castoldi, Milano, 1898; sull’Anglo-American
Bar, si veda il mio "El nost Milan: i
sciori", opera trascurata di Carlo Bertolazzi,
con la bibliografia ragionata degli studi, in "ACME", vol. XLIV,
fasc. I, gen.-apr. 1991, pp. 5-13; sulle traduzioni in
dialetto delle commedie italiane, si veda almeno Valentina Gallo, Bertolazzi e Benini tra copioni e edizioni:
un teatro sommerso, in Carlo
Bertolazzi e la scena, cit. pp. 291-323.
Sulle rappresentazioni bertolazziane: Catalogo degli spettacoli, a cura di
Manuela Matteoli, in Carlo
Bertolazzi e la scena, pp. 25-42; sul radiodramma di Delio Tessa, la cui
registrazione è andata perduta, Delio Tessa, La rava e la fava. 50 prose disperse, a c. di Mauro Novelli,
Casagrande, Lugano-Milano, 2014; sul Nost
Milan di Giorgio Strehler, il mio El nost Milan, i testi e
gli spettacoli, in AAVV, Giorgio Strehler e il
suo teatro, a c. di Federica Mazzocchi e Alberto Bentoglio, Roma, Bulzoni,
1997, pp. 119-141; Laura Cecarini, “El
Nost Milan” nelle messinscene di Strehler, in Carlo Bertolazzi e la scena, cit., pp. 205-214; Roberto Marelli, 1979. Ricordo di Giorgio Strehler durante le
prove dell'ultima edizione del Piccolo Teatro, in Paolo Valera, La Milano di Paolo Valera. Vita e scritti
dello scrittore lombardo, Milieu Edizioni, Milano, 2016.
Sui cenni più generali al teatro: l'espressione di Giorgio
Strehler "tremenda responsabilità della regia" si trova nell'articolo
La responsabilità della regia, in
"Posizione", ott.-nov. 1942, più comodamente leggibile in Giorgio
Strehler, Per un teatro umano: pensieri scritti, parlati e attuati, a cura di Sinah Kessler, Feltrinelli,
Milano, 1974; sul teatro milanese di Edoardo Ferravilla, Gaetano Sbodio
e Davide Carnaghi, si possono vedere il mio Cletto Arrighi e il Teatro Milanese (1869-1876), Avvertimento di Guido Bezzola,
Roma, Bulzoni, 1998; Paolo Bosisio, Alberto Bentoglio, Mariagabriella
Cambiaghi, Il teatro drammatico nella
Milano dell’Ottocento, Roma, Bulzoni, 2011; Andrea Sciuto, Ferravilla
autore, Ferravilla attore. La parola di Edoardo Ferravilla tra oralità e
drammaturgia, tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, relatori
Martino Marazzi e Francesco Spera, 2011-2012.
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