venerdì 24 giugno 2016

Il destin baloss di Carlo Bertolazzi e dei suoi personaggi

Con l'autorizzazione del Comune di Rivolta d'Adda, pubblico l'articolo che ho scritto per il catalogo della mostra da me curata Destin Baloss! Carlo Bertolazzi a cento anni dalla morte. 1916-2016. Il catalogo è pubblicato dal Comune di Rivolta d'Adda. Lo si può leggere . Tour virtuale della mostra.



Eric Hobsbawn ha definito il Novecento con un'espressione che ha avuto molta fortuna: "il secolo breve". Secondo lo storico britannico, le date che racchiuderebbero il senso del XX secolo, distinguendolo dai precedenti e anticipando quelli futuri, sarebbero il 1914 (Prima guerra mondiale) e 1991 (disfacimento dell’Unione Sovietica). Al di là delle ragioni di ordine storico e ideologico, questi limiti temporali si prestano bene a una riflessione su Carlo Bertolazzi, nato a Rivolta d'Adda il 3 novembre 1870 e morto a Milano il 2 giugno 1916, che il Comune di Rivolta d'Adda ha celebrato l'ultima volta il 29 e 30 settembre 1990 (vent'anni dopo le celebrazioni per il centenario della nascita). Su iniziativa dell'allora Sindaco Angelo Pasqualini e dell'allora Assessore alla Cultura Giuseppe Strepparola, il Comune di Rivolta promosse un libro, una conferenza e tre spettacoli della Compagnia Stabile Dialettale della Famiglia Meneghina diretta da Carletto Colombo (Strozzin!, Lorenzo e il suo avvocato, La prima sira).
Il Comune affidò la realizzazione del libro a me, fresco laureato in Lettere con una tesi sull'opera in dialetto di Carlo Bertolazzi. Proposi di raccogliere i suoi scritti teatrali, dispersi in varie testate. Ne vennero fuori le Cronache drammatiche e interventi critici, che Guido Bezzola, relatore con Paolo Bosisio della mia tesi, volle onorare con una prefazione. Non solo: pronunciò anche un raffinato intervento alla conferenza di presentazione del libro, alla quale parteciparono anche Eugenio Calvi, che tanto ha dato alla cultura di Rivolta; Claudio Beretta, storico della cultura e del dialetto milanesi; Sergio Torresani, critico teatrale; e Carletto Colombo, autore di tante regie bertolazziane.
Rivolta torna anche oggi a Carlo Bertolazzi, per il centenario della morte, con una lettura scenica della Gibigianna di Francesca Mazza, nata e cresciuta nella casa che fu dello scrittore, una serie di iniziative nelle scuole e la mostra Destin baloss!, che la Banca dell’Adda e del Cremasco ha voluto immortalare in questo catalogo.
Giuseppe Strepparola si è ricordato di me e mi ha invitato a collaborare con lui, Elisabetta Nava (Assessora alla Cultura), Roberto Stucchi (Responsabile Area Socio Culturale), Clara Vismara (Presidente dell'Università del Ben-Essere) e Cesare Sottocorno, insegnante.
Nel corso del lavoro, non ho potuto fare a meno di pensare che i cento anni che ci separano dalla morte di Bertolazzi sono stati, parafrasando Hobsbawn, parecchio lunghi. In un solo secolo il mondo è cambiato più velocemente e profondamente che in tutti precedenti, e se Carlo Porta (morto nel 1821) si sarebbe magari ritrovato nella Milano di Bertolazzi, Bertolazzi non si ritroverebbe certo in quella di oggi, e non dico per via della copertura del Naviglio (1929-1930) e delle trasformazioni successive fino alla Città metropolitana di oggi. E non vi morirebbe di broncoalveolite (o broncopolmonite che dir si voglia), che fu la causa ultima della morte, ma non la malattia che lo aveva colpito una quindicina di anni prima e della quale non abbiamo notizie certe.
Per avvicinarci al nostro argomento, la digitalizzazione di libri, locandine e manoscritti, era di là da venire anche nel 1990 (allora si facevano i microfilm, di cui mi servii per le Cronache drammatiche), per non dire del trasferimento digitale dei dati, che ci ha consentito di ottenere rapidamente e in tutta sicurezza gran parte del materiale della mostra che, in assenza di queste tecnologie, sarebbe stata molto più povera. Ciò nonostante, non siamo riusciti a ottenere alcuni pezzi importanti, come la Gibigianna, che le non poche biblioteche a cui ci siamo rivolti conservano sì, ma in condizioni che non ne consentono il trasporto e nemmeno la digitalizzazione.
La mostra è articolata in tre sezioni: testimonianze biografiche (es. certificati anagrafici, tesi di laurea, fotografie); documentazione dell'attività teatrale (copioni, locandine, lettere); immagini degli spettacoli moderni, cioè il video della Lulù di Andrée Ruth Shammah (Teatro Franco Parenti, 2010) e i bozzetti e le foto di scena delle tre edizioni del Nost Milan di Giorgio Strehler (Piccolo Teatro 1955, 1960, 1979). Abbiamo ordinato le foto scena per scena,  augurandoci di aver ottenuto il risultato di far rivivere la sublime poesia di Giorgio Strehler, che seppe far risuonare le corde profonde della scrittura di Carlo Bertolazzi.
Il resto del materiale proviene per circa la metà da istituzioni: il Comune e la Parrocchia di Rivolta d'Adda, la SIAE, l'Università di Pavia, la Famiglia Meneghina, il Comune di Milano, l'Archivio Notarile Distrettuale di Milano. L'altra metà proviene, salvo qualche pezzo del mio archivio, da Riccardo Mainardi, che custodisce l’archivio bertolazziano che il padre, il poeta dialettale Cesare, ereditò da Elisa Grilli, la vedova di Carlo Bertolazzi.
Le lettere ci mostrano un Bertolazzi ansioso e desideroso di confidenza con il suo interlocutore, anche quando la materia è tutta professionale. Al fondo, era un uomo leale al limite dell'autolesionismo, e dunque ingenuamente incurante del rischio di rivelarsi senza maschere, senza retropensieri, senza strategie occulte. C'è molto della sua semplicità d'animo nei suoi personaggi, come vedremo poi.
Non voglio nascondere che il copione autografo abbia per me un fascino particolare. Sembra di sedere accanto all'autore nel momento in cui compone, lo si vede titubare, cancellare, riscrivere, oppure filare via di conserva, sotto la spinta di un'ispirazione sicura. Bertolazzi è di quelli che va a momenti. Certe scene, al primo getto; altre, frutto di rielaborazione. Quasi sempre, provvede anche al disegno della scena, secondo un approccio teatrologico, di cui discutiamo più avanti.
L'intenzione della mostra è principalemente quella di accompagnare il pubblico nel mondo di Carlo Bertolazzi, soprattutto in quello intimo, nella convinzione che il dato biografico dica sempre parecchio della produzione artistica, pur non esaurendone i significati, anzi. Abbiamo voluto, così, presentare anche alcuni insospettati acquerelli e disegni, il cui decoroso livello amatoriale non ne giustificherebbe l'esposizione: ma sono coerenti con l'abbondanza della documentazione privata, che offre anche, attraverso Bertolazzi, una vista di come certe cose che si fanno anche oggi (per esempio la tesi di laurea o i certificati anagrafici) si facevano cento e più anni fa.
Cento anni, Hobsbawm a parte, sono pur sempre cento anni e al trascorrere del tempo resiste solo l'ingegno. Bertolazzi ne aveva. Viene dunque da domandarsi perché abbia faticato ai tempi suoi a entrare nei cartelloni teatrali e fatichi moltissimo ai nostri.
Una prima risposta sta nelle caratteristiche della sua produzione drammaturgica, che possiamo dividere in tre stagioni.
La prima stagione è contrassegnata da commedie in dialetto di ambientazione popolare, dai Benis de spos del 1891 a El nost Milan: la povera gent del 1893 (mi riferisco sempre alle date della prima rappresentazione, non a quelle della pubblicazione). Sulla linea di Porta e, in un certo senso anche di Manzoni, Bertolazzi dà voce al popolo minuto, i lôcch, i barabba, afflitti dalla povertà, dall'incertezza del lavoro (la "fabbrica dell'appetito", come dice il Peppon), sospinti dalla speranza di un avvenire migliore del presente, e sorretti dall'amore e dal buon umore, che rende la scrittura dei dialoghi molto espressiva e spesso anche divertente.
L'ambientazione popolare è a tutto tondo nella Povera gent, dove i tre personaggi (Peppon, Nina, Carloeu) compaiono solo al termine degli atti, emergendo come casi particolari dalla folla che anima a lungo la scena.
Per il pubblico popolare di allora, quei drammi sono una specie di epopea; per il pubblico borghese, una specie di critica della società moderna. Ma per Bertolazzi sono una critica sentimentale, etica, cioè ispirata alla pietà e a un senso comune di equità, non a un'ideologia o a un progetto sociale e politico. Per averne un'idea, basta leggere la risposta di Bertolazzi a un'inchiesta sul socialismo del 1894:
L'atteggiamento che prendo [sul socialismo] è dei più simpatici e ciò è naturale dal momento che divento socialista senza volerlo. Il socialismo per me è una nuova fede ch'io sento istintivamente, che mi seduce perché mi conforta e mi dà quelle soddisfazioni che ci procurano solamente gli ideali puri e sublimi. Ammessa l'applicazione pratica del socialismo più che un aspetto economico perfettamente equilibrato sono convinto della formazione di ua razza psicologicamente superiore il che mi basta per inneggiare alle nuove idee.
Nemmeno con la direzione, tra l'agosto e il novembre del 1896, del settimanale liberale, radicale e anticlericale "L'attualità", Bertolazzi manifesta una collocazione politica matura. Mantiene l'impostazione dei numeri precedenti, pubblicati sotto la direzione di Carlo Aliprandi (editore di molte opere bertolazziane), si limita a scrivere pochi articoli di argomento teatrale e abbandona la direzione quando Felice Cavallotti alza il livello della polemica politica attaccando Giosuè Carducci, 'reo' di essersi allineato acriticamente ai festeggiamenti per le nozze di Vittorio Emanuele III con Elena Petrovich Principessa del Montenegro, e di non aver voluto vedere il ridimensionamento dell'Italia nella politica internazionale a cui le nozze sembravano preludere.
La povera gent gira l'Italia con notevole successo. Ma il dialetto meneghino è ostico e il tema impegnativo per il pubblico borghese che acclama Verga, Giacosa, Ibsen. "No audience, no theater", direbbe George Clooney, e Bertolazzi è sensibile, come è ovvio che sia, al successo. Ma quella vena e quei temi si stanno comunque esaurendo: l'ultimo tremendo dialogo tra la Nina e il padre Peppon nè è un segno chiaro (cito a partire dalla replica di Nina al padre che le confessa di avere ucciso il Carloeu):
Nina (a mezza voce, crollando la testa): No...
Peppon (straziante, sempre a bassa voce): L'hoo faa per ti; te see che te vuj ben compagn d'on matt!
Nina (nervosamente come nauseata e vinta da tante disgrazie, quasi imprecando, con ira sorda): Destin baloss!
Peppon: Nina, ma te me diset nient? (Scuotendola, agitato) Guardom in di oeucc, te gh'hee nanca ona parola per tò pader?! (Nina accenna di no col capo. El Peppon la fissa; pausa, poi più forte) Te ghe vorevet ben, forsi? te vorevet sta con lù?!
Nina (a scatti, nervosa, agitatissima) [...] Puttosto che andà innanz inscì, me saria trada in del tombon de San Marc!
Peppon (con ansia): E allora?
Nina: Allora... la manera de liberamen, mi l'avevi già trovada, sigura (Pausa; il padre la fissa sempre con maggiore intensità. Con un filo di voce) Me sont decisa jer...
Peppon (incalzante): A fà cosa?
Nina: Jer... (pianissimo) Sont andada dalla Martina.
Peppon (spaventato): Ti?!
Nina (senza guardarlo): Sì, propri mi! Sont andada de lee, propri de lee!...
Pausa lunga, angosciosa.
Peppon (l'emozione l'assale; si avvicina alla figlia; in principio balbetta, non trova le parole, poi le parla piano col pianto nella voce come di uomo offeso in tutto ciò che ha di più sacro; nel suo orgoglio di vero popolano onesto): Nina! Sentom ben, guarda, quisti hin ultim paroll del tò pover papà, che adess el và in man della giustizia, ma credom, Nina, dam a trà, per caritaa! (Forte) Stà strasciada, patiss la famm, ma va no cont lor, va no coi sciori, per l'amor di Dio!
Nina: No, sont decisa, papà, sont propri decisa! [...] Voo ancami a fà la sciora, a mangià i bon boccon, a bev el vin e a dormì quattada! 
Infatti, la ritroviamo cocotte nel Nost Milan: i sciori (1895), ambientato nel centro lussuoso di Milano: dal nuovissimo e trendy Anglo-American Bar, realmente esistito fino al 1943 nello stabile dell'Hotel de la Ville dove la via Passarella (oggi Galleria Passarella) confluiva in Corsia dei Servi (oggi Corso Vittorio Emanuele), ai palazzi aristocratici di via Borgonuovo. È una mantenuta, veste elegante, si fa chiamare Belle Helène da uno stuolo di corteggiatori (artistocratici e qualche borghese: un pittore, un giornalista), rifiuta l'amore vero e ingenuo del Marchese Riccardo di Rivalta, e accetta il suo destin baloss di solitudine e di infelicità.
Con i Sciori siamo già nella seconda fase: opere in dialetto di ambientazione borghese. Questa fase era cominciata l'anno prima, il 1894, con due ottimi drammi: Strozzin! (ambientato in casa di un usuraio) e La ruina (rise and fall di un pittore). Qui, il mondo popolare è ormai sullo sfondo, quasi senza rimpianti.
Nel 1898, Bertolazzi ha però una specie di ripensamento, tenta di rielaborare il mito. Bianca, protagonista della Gibigianna, una popolana più superstiziosa che bigotta, vive poveramente con Enrico, lo scrivano di un avvocato, che la maltratta, come il Carloeu maltrattava la Nina. Lo abbandona e diviene cocotte. Ma Enrico la cerca, la trova, tenta di costringerla a tornare da lui, lei si rifiuta, lui l'accoltella. Terrorizzata di morire maledetta da lui, lo perdona; pentita del proprio degrado morale, scende dal mondo dorato e ricomincia con Enrico la vita incerta di prima. Finale a sorpresa, melodrammatico, sentimentale, direi anche verosimile.
Con il rientro di Bianca in una casa di ringhiera, Bertolazzi esaurisce definitivamente le soluzioni drammaturgiche sui temi popolari: qualcosa impedisce alla sua fantasia di immaginare per i suoi personaggi scenari diversi da quelli nativi. Questo ‘qualcosa’ potrebbe essere la combinazione della sua condizione borghese con la tradizione culturale milanese, improntata a un’etica inclusiva, e la cultura del tempo, ancora fortemente condizionata dal determinismo. Per cui Nina e Bianca sono più vicine a Renzo e Lucia che non a Berardo Viola, il protagonista di Fontamara, pur distando circa 70 anni dai personaggi manzoniani (la prima edizione dei Promessi sposi è del 1827) e meno di 40 da quelli di Silone (Fontamara è del 1933, ma scritto nel 1930). Anche da questo punto di vista, Bertolazzi è fuori dal secolo breve.
La transizione si chiude, appunto, con la Gibigianna e con la relativa prefazione di Gerolamo Rovetta, che incita Bertolazzi a contribuire al repertorio del teatro nazionale in lingua.
La prima commedia della terza e ultima stagione è l'Amico di tutti, che Bertolazzi, ancora troppo noto come autore dialettale, è costretto a tradurre prima in dialetto veneto (L'amigo de tuti del 1899) e poi in milanese, pur di farlo rappresentare. Traduzioni in dialetto ne fa ancora negli anni successivi (es. L'egoista del 1901, La zitella / Ona tosa al palo del 1907), sempre per lo stesso motivo e sempre con minore successo, perché il dialetto è posticcio, non si adatta bene alle turbe psico-familiari dei più o meno piccoli borghesi in scena. E non funziona meglio nemmeno la traduzione in italiano delle sue opere dialettali (Strozzino! e Povera gent pubblicate nel 1905, Bianca cioè Gibigianna pubblicata nel 1906, La rovina pubblicata nel 1907).
Traduzioni a parte, Bertolazzi produce circa una commedia nuova all’anno fino al 1910, nonostante si sia ammalato gravemente all’inizio del secolo. Quale malattia, come dicevo, non si sa. Nella stampa dell’epoca, c’è una esibita reticenza al riguardo, accanto alla viva preoccupazione per la sua vita. Di fatto, si trasferisce a Pallanza (torna cittadino milanese solo nel marzo del 1916), si cura, si sposa nel 1905 a Elisa Grilli attrice della Compagnia Sbodio-Carnaghi, la preferita del Bertolazzi della prima e seconda stagione. Riemerge pelle e ossa dalla fase acuta, cammina con il bastone e continua a scrivere.
Le commedie borghesi della terza stagione si allontanano definitivamente dal mondo popolare, sono ambientate in appartamenti grandi e case di campagne, che esibiscono un certo benessere e talvolta persino ricchezza, ma riprendono un tema delle opere della seconda stagione, un tema destinato a divenire dominante: la perdita brutale dell’innocenza (tre le eccezioni: Amigo de tuti, Lorenzo e il suo avvocato).
Cominciamo con qualche dato. L’innocenza, i personaggi bertolazziani la perdono sui vent’anni. Sono generalmente donne, più raramente uomini (Lulù, Ombre del cuore del 1908). A causare direttamente la perdita brutale dell’innocenza possono essere uno o entrambi i genitori (Strozzin!, Egoista, Il matrimonio della Lena, Ombre del cuore), oppure l’amato (Gibigianna, Lulù). Non esistono altri agenti della brutalità.
Ma vegnimo a dir el merito: la perdita dell’innocenza consiste nel crollo dell’ideale della famiglia fondata sull’amore (non sarà inutile ricordare che in milanese l’amore si esprime con ‘vorè ben’ e che Bertolazzi pensava in dialetto anche quando scriveva in italiano, come del resto ammise lo stesso Manzoni).
L'ideale della famiglia fondata sull'amore si fonda a sua volta e innanzitutto sul vuoto d'amore determinato dalla prematura morte della madre (Nost Milan, Strozzin!, Gibigianna, Egoista, Lorenzo e il suo avvocato). Questo tratto, che ha un'evidente origine autobiografica (Bertolazzi perse la madre all'età di un anno), è un elemento costitutivo della personalità dei protagonisti e dunque del plot, perché i protagonisti aspirano in futuro a ottenere l'amore non ricevuto e non dato in passato.
L'ideale della famiglia fondata sull’amore è poi anche il risultato opposto a quello desiderato dall'educazione ricevuta in famiglia che:
·       rappresenta ai figli l'amore tra i genitori come un patto sottoscritto e rispettato sempre felicemente per la gestione ottimale di una micro-società fondata sull'interesse economico e sulla rispettabilità sociale;
·       intende l'amore filiale come devozione eterna (soprattutto nei confronti del padre, indiscusso e indiscutibile capo di famiglia) che non prevede l'autonomia dei figli nemmeno quando raggiungono l'età adulta (da piccole, le figlie vengono talvolta messe in collegio).
In tali famiglie, si possono concedere ai figli molte o tutte le cose che hanno un prezzo accessibile, ma non certo di andare dove li porterebbe il cuore. Chiarissime alcune battute dell'Amigo de tuti:
Palameo [parlando del matrimonio della figlia]: Se el pretendente el xe el sior Gustavo, alora xe un altro per de maneghe.... anzi, dirò adiritura ch'el toso nol me dispiase...
Alessandro: E a so fia?
Palameo: Mia fia? Cossa gh'entra mia fia?
Alessandro (dolce): Oh Dio! se trataria del maridarla ela...
Palameo: E dunque? chi son mi? contento mi, no basta?
Questo modello induce i figli a idealizzare l'amato, ad attribuirgli valori 'puri', e pertanto a vagheggiare un modello familiare diverso.
La combinazione del rifiuto del modello familiare di provenienza con l'ambizione a realizzare il modello 'puro' con l'amato è il meccanismo che scatena il dramma bertolazziano della perdita brutale dell'innocenza. Infatti, entrambi i modelli, sottoposti al test di verità, cioè alla resistenza ai fatti della vita, rivelano i segreti inconfessabili, fino a quel momento coperti dalla menzogna, di almeno uno dei personaggi in gioco: traffici illeciti del padre (l'usura di Strozzin! e di Ombre del cuore), infedeltà di un genitore (Strozzin! e Ombre del cuore in cui il figlio è un bastardo e il padre abbandona la famiglia per una cocotte), raggiro di un fratello (Sciori, Egoista), relazioni scandalose (aborto: Sciori), infedeltà dell'amato, certa (Lulù) o sospettata (Gibigianna).
L'agnizione distrugge non solo le relazioni ma, e questo è il punto bertolazziano, schianta la personalità stessa dei protagonisti, perché, rivelando l'insussistenza dei loro valori, prospetta un avvenire paurosamente vuoto di un quale che sia significato. Rimedi a tale disperazione sono il suicidio (Maria di Strozzin!), l'omicidio dell'amata (Mario di Lulù) o l’accettazione del destin baloss, cioè di un destino di infelicità senza desideri, come direbbe Peter Handke: è il caso Elena (Egoista), Lena (Matrimonio della Lena), Maurizio (Ombre del cuore) e di Riccardo (Sciori), che non è un ventenne, ma è ingenuo come se lo fosse. Qualche esemplificazione.
Maria (Strozzin!) si uccide non perché Enrico l’abbandona, ma perché a) ha scoperto che suo padre è uno strozzino; b) suo padre è lo strozzino che ha condotto il fratello di Enrico al suicidio; c) Enrico le ha mentito sul perché l'abbandoni.
Bianca (Gibigianna) diviene una cocotte perché scopre che la sua famiglia di fatto (diremmo così, oggi) è fondata sulla povertà e sulle botte che il suo Enrico le dà per gelosia. D'altra parte, Enrico scopre che Bianca è sistematicamente bugiarda. Sicché povertà-bugia-gelosia-botte generano un loop di infelicità senza uscita che, alla fine (dopo la coltellata e la prostituzione), si rivela la soluzione preferibile.
Lena (Matrimonio della Lena) non si compromette con il parrucchiere per sano erotismo (a quei tempi, inconcepibile all'interno della morale convenzionale), ma per rivendicare il suo diritto alla felicità in faccia ai genitori, che l’hanno rinnegata, come una Cenerentola, proprio per la sua vocazione all’indipendenza, alla felicità indifferente alle convenzioni sociali.
Maurizio (Ombre del cuore) perde l’innocenza quando il padre, l’implacabile strozzino Giovanni, lascia la famiglia dopo aver scoperto che l’amatissimo figlio non è figlio suo. Qui tutto va in frantumi: Giovanni perde la moglie fedifraga e il figlio bastardo, la moglie perde un marito a cui vuol tutto sommato bene, il figlio perde l’amore del padre e resta con la madre colpevole, alla quale, anche se la commedia finisce prima, non potrà fare a meno di imputare le sue responsabilità.
Il teatro borghese di Bertolazzi pone dunque al centro la famiglia come fattore di infelicità. Tale critica al cardine della società cattolico-borghese è senza appello e non può che lasciare l'amaro in bocca a buona parte del pubblico, anche moderno. Sarà anche per questa ragione che Delio Tessa rielaborò la mai rappresentata Trattoria "Al vero conforto" e ne fece un radiodramma che la Radio della Svizzera Italiana trasmise il 3 gennaio 1940.
Bisogna però aggiungere una considerazione: la famiglia bertolazziana è un mondo chiuso, piccolo. In queste commedie:
·       i personaggi rappresentano sempre gli stessi pattern psicologici (non esistono pazzi, assassini ecc.);
·       i personaggi non hanno veri amici (si tratta piuttosto di colleghi o coinquilini);
·       non vi è traccia di argomenti storici e sociali (si pensi, senza andar lontano, alla Folla di Paolo Valera, del 1901).
Anche Dio è assente. Compare talvolta una meschina religiosità: quella di Bianca è subordinata irrimediabilmente alla superstizione; quella di Franco Marteno (Egoista) è frutto tardivo del terrore della morte e si traduce in un volgare mercato dei suoi beni a vantaggio del viscido prete e a svantaggio della figlia; quella de Il diavolo e l'acqua santa si risolve alla don Camillo e Peppone.
Senza i valori che tali argomenti implicano, ai drammi bertolazziani sfugge irrimediabilmente la profondità che li avrebbe resi interpreti completi della modernità: il pubblico se ne avvede, e apprezza sempre meno la limitatezza e la ripetitività del teatro bertolazziano. Il 27 dicembre 1908, Bertolazzi si sfoga con Adolfo Re Riccardi, il suo agente:
Posso riassumere la mia situazione con una sola parola molto eloquente: un disastro! [...] Così, assolutamente, io non vado più avanti! [...] Quale sarà il Quadro finanziario di quest'ultimo trimestre? Misericordia! Una miseria! Non vi sono che due recite di Principessina, sei o sette di Ombre del cuore, tre o quattro di Giorni di festa. Conclusione: un anno terribile.
Il 25 ottobre 1909 scrive a Renato Simoni ('firma' del Corriere della Sera, suo testimone di nozze):
Dopo il Focolare, un lavoro che ho scritto in questi mesi d'estate, io chiuderò definitivamente bottega. Ho concorso al posto di notaio a Carate Brianza - sono riuscito primo e attendo di giorno in giorno la nomina ufficiale del ministero.
Bertolazzi rogita il suo primo atto il 27 febbraio 1910 e, salve alcune occasionali rappresentazioni e pubblicazioni, abbandona il teatro, affidandolo alla posterità. La quale posterità, come dicevamo, non lo ha del tutto dimenticato, ma nemmeno lo ha eletto tra gli evergreen. Né poteva essere diversamente: il teatro bertolazziano, con i limiti di cui abbiamo parlato, difetta di una piena universalità.
Siamo quindi in grado di dare una prima risposta al perché Bertolazzi non appaia quasi più nei cartelloni teatrali:
·       il suo teatro in dialetto è vittima del declino dei dialetti: si salvano i grandissimi universali di Goldoni e De Filippo. Il resto del repertorio è di interesse residuale, locale, dilettantistico;
·       il suo teatro borghese è lontano dalla sensibilità del pubblico moderno, e dunque poco sintonico con le politiche culturali dei teatri di oggi.
Ai quali teatri preoccupa anche il marchio di fabbrica, dal punto di vista tecnico, del teatro di Bertolazzi: la scena d'insieme (Povera gent, I sciori, Gibigianna e, anche se meno impegnative, Lulù e Lena). Le scene d'insieme presentano due problemi che, combinati, contribuiscono a darci una seconda risposta sulla scarsa presenza di Bertolazzi nei teatri di oggi:
·       sono costose (scene complesse, gran numero di attori e comparse);
·       offrono ristretti margini di manovra creativa al regista.
Consideriamo solo i casi estremi dei due capolavori El nost Milan (primi atti) e la Gibigianna (secondo atto), che esigono una scena molto articolata dove i personaggi (54 nella Povera gent, 47 nella Gibigianna, 25 nei Sciori, più parecchie comparse) devono rappresentare in alternanza tra loro le scene e le controscene, e dove l'effetto si ottiene con una ottimale gestione dei tempi.
Luogo, battuta (tono, azioni e tempi), luogo della controscena, azioni e tempi della controscena sono rigidamente prestabiliti nelle didascalie, delle cui potenzialità Bertolazzi è certamente tra i massimi interpreti. Sul perché, vale la pena dire due parole.
Oggi, siamo abituati ad attribuire al regista la "tremenda responsabilità" (come la chiamò Strehler) dello stile dello spettacolo. Ma il regista, che è la principale innovazione del teatro novecentesco, appare (in Germania e Francia prima che in Italia) immediatamente dopo la generazione di Bertolazzi (D'Annunzio, Pirandello, Bragaglia), che anche da questo punto di vista è fuori dal secolo breve.
Fino al tempo di Bertolazzi, la responsabilità dell'allestimento era del capocomico, il cui obiettivo principale era ottenere il successo personale suo e della prima attrice, perché questo successo significava né più né meno la sopravvivenza della compagnia. I drammatughi che hanno subordinato le esigenze dei teatranti al valore letterario della loro opera hanno più facilmente subito delusioni e danni, nel teatro d'attore. Eccezioni notevolissime sono stati Shakespeare e Goldoni, che seppero gestire (almeno fino a un certo punto) gli attori acquisendo un ruolo particolare nella compagnia (il primo come attore, il secondo come autore fisso e stipendiato).
Bertolazzi si affida alle didascalie e partecipa anche alle prove, con ottimi risultati. Non ci risultano, infatti, particolari rimostranze nei confronti dei suoi interpreti, tra i quali dobbiamo ricordare, nella prima e seconda stagione, Gaetano Sbodio e Davide Carnaghi (formatisi nella compagnia di Edoardo Ferravilla), e, nella terza stagione, alcuni tra i principali attori del teatro nazionale, come Ferruccio Benini (Amigo de tuti, Egoista, La zitella), Virgilio Talli (La casa del sonno, La zitella), Ruggero Ruggeri (La casa del sonno), Teresa Mariani (Lulù, Lorenzo e il suo avvocato), Ermete Novelli (Ombre del cuore).
Bertolazzi, dunque, crede molto nelle didascalie, il cui rispetto è necessario nelle scene d'insieme. Quando non sono rispettate, le cose vanno male. Ecco cosa scrive nel 1901 a Decio Guicciardi, drammaturgo (La torta, 1901) e responsabile di una compagnia milanese, a proposito del secondo atto di Gibigianna:
Si nota una generale trascuratezza, una smania di strafare tantoché di un atto d'assieme ne risulta alla fine un indigesto minestrone senza sale. Il secondo atto della Gibigianna se lo ricordino, gli egregi artisti della Compagnia Milanese, è un atto pericoloso. Per quel che riguarda l'esecuzione è un abito cucito a macchina; se si rompe un filo, l'abito si disfà di colpo. E ieri sera di fili se ne ruppero parecchi [...]. Raccomandi che tutti devono stare al testo. Per quanto sia preziosa la collaborazione degli artisti io, per le mie idee, sono costretto a rifiutarla.
Il teatro bertolazziano è dunque certamente concepito per la rappresentazione, ma per quella rappresentazione, sulla quale Bertolazzi fa aggio con didascalie che, nella loro precisione, anticipano le note di regia del teatro di oggi. Sicché, le scene d'insieme offrivano e offrono al regista ben pochi spazi per dare allo spettacolo uno stile suo. La povera gent e la Gibigianna si possono fare in un modo solo, un po' come Aspettando Godot, che l'alberello ci deve essere e gli attori non possono fare altro che girarci intorno. Tanto è vero che Strehler riuscì solo a fondere il secondo atto (Estrazione del lotto) con il terzo (Cucine economiche) ma, quanto al resto, dovette assecondare Bertolazzi. Se quello spettacolo è rimasto nella storia del teatro è perché Strehler, regista dotato oltre che di un talento sconfinato anche di tutto lo strumentario culturale che i capocomici non avevano, sfruttò al massimo luci, scene e costumi, gesti e intonazione degli attori ecc., e perché La povera gent si inseriva perfettamente nella sua ideologia e nel 'sentimento del tempo' (vivo nel 1955 e nel 1960, un po' scemato nel 1979). Ma oggi, fare La povera gent diversamente da Strehler (e meglio di lui) è un'impresa che scoraggia un regista che voglia aggiungere qualcosa di nuovo alla storia del teatro.
A conti fatti, il teatro di Bertolazzi è un teatro difficile per il pubblico e per le compagnie, perché non lascia scampo: il pubblico è indotto allo straniamento invece che all'immedesimazione (questa difficoltà viene sottolineata anche nelle recensioni del tempo), e le compagnie sono costrette ad accettare precise condizioni tecniche ed economiche.
È un teatro difficile anche da leggere, perché al lettore è richiesta la massima concentrazione, in particolare quando l'azione procede lentamente, come nelle scene d'insieme, nelle quali Bertolazzi sembra voler suggerire che la scarsità dei fatti consenta e anzi richieda uno sguardo panoramico. Ma in realtà, Bertolazzi, come i grandi giallisti, sa nascondere l'informazione cardinale, svilupparla poco alla volta fino a quando appare in tutta la sua evidenza come se fosse stata detta per la prima volta.
I Sciori è il caso emblematico. L'informazione cardinale, la premessa del dramma, riguarda l'aborto della Contessina Ormini (relazione con un servitore), che deve essere tenuto nascosto al Marchese Riccardo di Rivalta (ingenuo reduce delle esplorazioni africane) che il fratello Don Ceser, per salvare le sostanze della famiglia, vuole fargli sposare. Il segreto lo conoscono tutti, e finirà pertanto per conoscerlo anche lui.
Bertolazzi introduce sottotraccia questa informazione nel primo atto, poi la sviluppa nel secondo e la esplicita solo nel terzo. Il primo atto è ambientato alla domenica mattina nell'Anglo-American Bar dove gli uomini consumano l'aperitivo in piedi (secondo la moda americana) mentre le donne assistono alla messa. I dialoghi si sovrappongono, si interrompono, sfumano nel cicaleccio generale. L'informazione cardinale appare in quattro occasioni, nelle quali il brutale cinismo dei personaggi contribuisce a ridurne l’evidenza.
Prima occasione (mentre le donne escono di chiesa):
Baron (guardando fuori): Ch'el guarda on poo la contessa Ormini colla tosa!
Taccani: Per bacco! l'è la prima volta che la se fa vedè in publich, la sura Contessina (Ride ironico).
Baron: Oh Dio! cose vecchie - cose passate...
Mainetti (a Taccani): A ditt la veritaa avaria voruu trovamm mi in di pagn del dottor Marsieri!
Taccani: Ah sì! On colloquio de dò ôr, al tu per tu... e poeu minga domà de parer avariss cambiaa, ma anca el nomm se fuss staa possibil
Mainetti: Adess hin tutti de casa Rivalta... te set accort?
Taccani: Difatti hin insemma all'avvocat Palmieri...
Mainetti: Quel che ha ciappaa el post del dottor...
Taccani: Precisament

Seconda occasione (parlando del Marchese Riccardo):
Mainetti: Le signore ghe moeuren adree, ma lu i e capiss no o el fa finta de no capij... fina la contessina Ormini...
Taccani: Ah, quella lì, lìè el fradell ch'el voeur faghela sposà...
Mainetti: Te set inveci chi l'è che gh'ha fa colp?
Baron (subito con interesse): Chi?
Mainetti: La Belle Helène!

Terza occasione:
Baron (a Ormini): T'hee vist don Ceser?
Ormini: L'ho vist adess ch'el vegneva foeura de San Carlo con so fradell e mia miee... (Altro tono) A proposit, te set no la gran novitaa? hoo venduu la Baja".

Quarta occasione:
Baron: Domani... mi progetti una gita a Coraa, nella mia villa (a Riccardo e Ceser) in onore del noster car Riccardo... Ti Ormini... s'en parla nanca, ci farai compagnia con toa miee e con toa tosa.
Ormini: Mi doman poss minga... gh'hoo on fila de occupazion che me ten ligaa tutta la giornada!... gh'hoo l'Esperance [un'altra cavalla] che la me s'è malada!
Baron (con premura subito): Cosa la gh'ha? cosa la gh'ha?...
Ormini: Niente! On poo de toss ciapada a San Sir.
Baron: Ah respiri!... me s'era giamò stremì... ona bestia così intelligente
Nel secondo atto, l'informazione cardinale comincia a prendere corpo:
Belle Helène (discorrendo piano a Taccani): L'è vera del matrimoni della tosa dell'Ormini col marches Riccardo?
Taccani: Inscì disen. L'e el fradell Don Ceser che l'è sotta a combinà tuscoss.
Belle Helène: Ma el sa lu del passaa della contessina?
Taccani: Oh certament!         
Belle Helène (quasi con dolore): Anca lu compagn di alter!
Taccani: Perchè? te seret fada di illusion forsi?

L'informazione cardinale viene esplicitata nel terzo atto, da parte dei servitori:
Coeugh (avvicinandosi con interesse): E la tosa?... ghe disii nagotta?
Marco: No parlar de ela per amor di Dio altrimenti se verzeranno le caterate del cielo.
Anselmo: Ona civettona che n'ha faa de tutt i razz!
Andrea: L'ha faa la fortuna del Peder!
Coeugh: Verissimo! El Peder el gh'avuu la tosa e poeu i danee! (Ride con malizia)
Marco: Diesemila lire, e tuto perchè el tasesse.
Luzia: E adess hin adree a bolognaghela a quaichedun!
Tutti: (sempre con vivo interesse): Ah sì?? (Si stringono ancora più dappresso formando gruppo).
Luzia (con gran mistero): Nientemeno!... guardee che nanca l'aria de savell! me raccomandi!
Tutti: Ssst!                                      
Luzia (pianissimo): Hin adree a faghela sposà al Marches Rivalta, quel ch'è tornaa de l'Africa!
Tutti (increduli): Oeuh dess! Ma che! L'è impossibil!
Coeugh: El marches l'è minga inscì stupid! Te voeutt che le sappia minga?
Luzia: El sa nient ve disi! Mi el soo dalla Cesira, cameriera della Contessa mader che me l'ha ditt in tutta segretezza. Lu el sa nient! Chi sa la storia l'è el fradell, Don Ceser, perchè quell el gh'è staa de mezz anca quand gh'è staa l'affari del dottor, ve ricordii?
Coeugh: Ah già, l'abort!
Anselmo: Bravo! l'abort procuraa da la mader!...
Marco (pauroso): Pian per carità.... Se i me sentisse!
Andrea: La Luzietta la gh'ha reson. Anca sti git chi hin combinaa apposta per tirà visin i duu giovincelli.
Luzia: Ma diavol!
Anselmo: L'è ciara come el sô.
Coeugh: Che razzapaia de gent!
Marco: Cosse de l'altro mondo!

A questo punto, manca solo che la conosca Riccardo:
Baron: Nota che se voress... figuret che el Mainetti el ven a sta gita perchè l'è innamoraa della Contessina!
Riccardo: Innamoraa?
Baron (ridendo): Innamoraa de quella lì! El bell l''è che on dì in tutta confidenza el m'ha confessaa che lu el saria dispost a sposala.
Riccardo: Ma mi ghe troeuvi nient de rid.
Baron: Ma com'è....dopo quell che gh'è staa?!... Ah sent.... savell minga pazienza, ma savendel, la me par on poo grossa.
Riccardo: Ma cosa?
Baron: Ma sì... ma la storia del Peder... de quel servitor, de l'abort... a momenti ghe faseven el process. Te se ricordet pù?
Riccardo (serio): De la contessina Clelia?
Baron: Già! l'ann passaa... Ah già che ti te seret via... forse te savarett nagotta.
Riccardo (impallidendo): Difatti!
Baron: Ma sigura, on scandol! La Contessina la gh'ha avuu relazion cont on servitor. Fina chi, pocch mal... el brutt hin staa i conseguenz! On fioeu! Per fall sparì... l'abort. I dottor s'hin miss de mezz, ma a momenti se mett de mezz anca l'autoritaa... (Vedendo Riccardo sempre più agitato) Cosa te gh'et?
Riccardo: Nient, me senti mal
Dicevo della difficoltà maggiore della lettura perché, messe in scena, queste battute possono essere sottolineate con scelte registiche appropriate (intonazione, gesti), che mettano lo spettatore sull'avviso. Ma la pagina è - per dir così - piatta, o appare tale.
La scrittura di Bertolazzi è dunque parecchio raffinata: il plot, non solo nei Sciori, si realizza con un ritmo lento e con un intreccio dosatissimo degli argomenti, in modo che il lettore-spettatore rimanga incerto su quale possa essere lo scioglimento del dramma, fino all'inesorabile finale. Ma, se il destin baloss dei personaggi bertolazziani riesce a coinvolgere fino a un certo punto noi moderni, non così è per la tecnica compositiva, che resta mirabile.
Nell'insieme, Bertolazzi è un autore difficilmente evitabile da chi voglia apprezzare una raffinata costruzione del dramma, massimamente quando la numerosità dei personaggi ne rende di difficile comprensione la trama. È altrettanto inevitabile quando si voglia riflettere su quanto profondamente il secolo breve abbia agito sulla sensibilità delle persone, sui valori della famiglia e sui requisiti d'ingresso all'età adulta. Se il teatro di Bertolazzi appare a noi un po' datato, è anche perché, però, siamo forse un po' troppo disincantati rispetto all'ingenua ma non falsa semplicità d'animo, invocata da Bertolazzi quale valore non negoziabile. In tal senso, i miti bertolazziani possono ancora operare da specchio, e dirci qualcosa che non troveremmo tanto facilmente altrove. Non è poco, anzi mi pare più che sufficiente per farci considerare Bertolazzi uno dei massimi drammaturghi del suo tempo, e uno dei grandi solisti del nostro teatro.


Nota bibliografica
Ho pensato che nell’introduzione del catalogo di una mostra le note a piè di pagina potessero infastidire il lettore più di quanto lo infastidiscono nella lettura dei saggi. Non volendo, tuttavia, dar niente per scontato, né far mancare al lettore l’opportunità di condurre in piena autonomia tutti gli approfondimenti che crede, rendo conto qui in fondo dei riferimenti bibliografici di cui mi sono servito o che ritengo utili.
Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi di Eric Hobsbawm, che ispira l’apertura e la chiusura della mia introduzione, è uscito nel 1994 (ora Rizzoli, Milano, 2014).
Il volume di Carlo Bertolazzi, Cronache drammatiche e interventi critici, a mia cura, con Avvertimento, Comune di Rivolta d’Adda, 1990 fu presentato il 28 settembre 1990 da diversi studiosi, che qui vorrei ricordare. Dell’opera di Guido Bezzola, che si estende dalle origini della letteratura italiana (Compagni, Petrarca) ai grandi lombardi (compresi i milanesi elettivi Foscolo, Stendhal e Tommaseo), è ingrato fare una sintesi, ma, da suo allievo, mi è caro riconoscere l’influsso particolare sulla mia formazione del commento ai Promessi sposi (Rizzoli, Milano, 1961) e della biografia di Carlo Porta (Le charmant Carline, Il Saggiatore, Milano, 1972). A Claudio Beretta siamo debitori, oltre che di diversi studi milanesi (Carlo Porta, Poesie-Lettere, Bompiani, Milano, 1988; Letteratura dialettale milanese, Hoepli, Milano, 2003), anche di due contributi eccentrici che vorrei segnalare agli specialisti, nella speranza che ne approfondiscano gli importanti spunti: Toponomastica in Valcamonica e Lombardia. Etimologie. Relazioni con il mondo antico, Edizioni del Centro Camuno di Studi Preistorici, Capo di Ponte, 1997; e I nomi dei fiumi, dei monti, dei siti. Strutture linguistiche preistoriche, Prefazioni di Emmanuel Anati e di L. Luca Cavalli Sforza, Hoepli, Milano, 2003. A Sergio Torresani dobbiamo diversi saggi di argomento teatrale e la pubblicazione di alcuni inediti bertolazziani: le primissime commedie di Bertolazzi Mamma Teresa e Ave Maria (entrambe in "Ariel", n. 1, gen.-apr. 1986, rispettivamente alle pp. 105-132, e 133-149); e molte lettere ad Adolfo Re Riccardi, tra le quali anche quella qui citata (Lettere di Carlo Bertolazzi a Adolfo Re Riccardi, in "Otto/Novecento", anno XI, n. 5/6, set.-dic. 1987, p. 126). Carletto Colombo ha scritto Storia del teatro dialettale milanese. Gli autori dal Seicento a oggi, Provincia di Milano, 1981. Di Eugenio Calvi vorrei ricordare, oltre alla Storia di Rivolta d’Adda, realizzato dalla Cassa Rurale ed Artigiana di Rivolta d'Adda nel 1988, un ottimo intervento su Carlo Bertolazzi, pubblicato in “La voce di S. Alberto” del 21 dicembre 1969.
Per quanto riguarda il punto di vista politico di Bertolazzi, la riflessione sul socialismo apparve in "Vita moderna", apr.-mag. 1894, ma si può leggere più comodamente nel mio Ricerche biografico-teatrali su Carlo Bertolazzi, pp. 29-30. Sulla direzione della rivista "Attualità", si veda il mio Carlo Bertolazzi direttore de "L'Attualità", in Carlo Bertolazzi e la scena, numero speciale di "Ariel", quadrimestrale di drammaturgia dell'Istituto dfi Studi Pirandelliani e sull Teatro Italiano Contemporaneo, anno XV, n. 2-3, mag.-dic. 2000, pp. 159-173.
Altre citazioni. Quelle del Nost Milan provengono da El nost Milan e altre commedie, a c. di Folco Portinari, Einaudi, Torino, 1971. In particolare: dalla Povera gent, “la fabbrica dell’appetito”, p. 23 e l’ultima scena pp. 63-65; dai Sciori, pp. 73-74, 75, 77, 79, 90, 107-108. Le battute dell’Amigo de tuti si trovano a p. 59 dell'edizione Filippi Editore, Venezia, 1977. La lettera a Renato Simoni si trova nel mio Ricerche biografico-teatrali su Carlo Bertolazzi con "Appendice" di lettere inedite e rare, in "Otto/Novecento", anno XIII, n. 3/4, mag.-ag. 1989, pp. 53-54, mentre quella a Decio Guicciardi è stata pubblicata da Emilio Guicciardi, Nella tempesta del Novantotto: "La gibigianna", in "La Martinella di Milano", fasc. I, 1980, p. 381.
Sulle singole opere: la Prefazione di Gerolamo Rovetta si trova in Carlo Bertolazzi, La gibigianna, Baldini e Castoldi, Milano, 1898; sull’Anglo-American Bar, si veda il mio "El nost Milan: i sciori", opera trascurata di Carlo Bertolazzi, con la bibliografia ragionata degli studi, in "ACME", vol. XLIV, fasc. I, gen.-apr. 1991, pp. 5-13; sulle traduzioni in dialetto delle commedie italiane, si veda almeno Valentina Gallo, Bertolazzi e Benini tra copioni e edizioni: un teatro sommerso, in Carlo Bertolazzi e la scena, cit. pp. 291-323.
Sulle rappresentazioni bertolazziane: Catalogo degli spettacoli, a cura di Manuela Matteoli, in Carlo Bertolazzi e la scena, pp. 25-42; sul radiodramma di Delio Tessa, la cui registrazione è andata perduta, Delio Tessa, La rava e la fava. 50 prose disperse, a c. di Mauro Novelli, Casagrande, Lugano-Milano, 2014; sul Nost Milan di Giorgio Strehler, il mio El nost Milan, i testi e gli spettacoli, in AAVV, Giorgio Strehler e il suo teatro, a c. di Federica Mazzocchi e Alberto Bentoglio, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 119-141; Laura Cecarini, “El Nost Milan” nelle messinscene di Strehler, in Carlo Bertolazzi e la scena, cit., pp. 205-214; Roberto Marelli, 1979. Ricordo di Giorgio Strehler durante le prove dell'ultima edizione del Piccolo Teatro, in Paolo Valera, La Milano di Paolo Valera. Vita e scritti dello scrittore lombardo, Milieu Edizioni, Milano, 2016.
Sui cenni più generali al teatro: l'espressione di Giorgio Strehler "tremenda responsabilità della regia" si trova nell'articolo La responsabilità della regia, in "Posizione", ott.-nov. 1942, più comodamente leggibile in Giorgio Strehler, Per un teatro umano: pensieri scritti, parlati e attuati, a cura di Sinah Kessler, Feltrinelli, Milano, 1974; sul teatro milanese di Edoardo Ferravilla, Gaetano Sbodio e Davide Carnaghi, si possono vedere il mio Cletto Arrighi e il Teatro Milanese (1869-1876), Avvertimento di Guido Bezzola, Roma, Bulzoni, 1998; Paolo Bosisio, Alberto Bentoglio, Mariagabriella Cambiaghi, Il teatro drammatico nella Milano dell’Ottocento, Roma, Bulzoni, 2011; Andrea Sciuto, Ferravilla autore, Ferravilla attore. La parola di Edoardo Ferravilla tra oralità e drammaturgia, tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, relatori Martino Marazzi e Francesco Spera, 2011-2012.
 

 

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